Piume di un cigno scomparso: “Lohengrin” alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e di Balletto 2012/2013
“LOHENGRIN”
Opera romantica in tre atti
Poema e musica di Richard Wagner
Heinrich der Vogler RENÉ PAPE
Lohengrin JONAS KAUFMANN
Elsa von Brabant ANJA HARTEROS
Friederich von Telramund TÓMAS TÓMASSON
Ortrud EVELYN HERLITZIUS
Der Heerrufer des Königs ZELJKO LUCIC
Vier Brabantische Edle LUIGI ALBANI, GIUSEPPE BELLANCA, GIORGIO VALERIO, EMIDIO GUIDOTTI
Vier Edelknaben LUCIA ELLIS BERTINI, SILVIA MAPELLI, MARZIA CASTELLINI, GIOVANNA PINARDI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Claus Guth
Scene e costumi Christian Schmidt
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Milano, 18 dicembre 2012

Dal febbraio 2007 Lohengrin mancava alla Scala: la scelta di riprenderlo per inaugurare la stagione 2012-2013, che corre parallela al duplice bicentenario verdiano-wagneriano, è stata più che apprezzabile. Al di là delle prevedibili polemiche (perché Wagner e non Verdi? Il provincialismo di una simile domanda contiene anche la qualità di una possibile risposta) conviene leggere le motivazioni di tale scelta anche nell’esito complessivo che l’allestimento e l’esecuzione musicale hanno sortito. Esso va sintetizzato subito, e con un aggettivo che non lasci dubbi: magnifico.
Al centro della produzione sono certamente la direzione orchestrale e la concertazione di Daniel Barenboim, che presenta un Lohengrin sovraccarico di tensione drammatica e di nervosismo, dall’inizio alla fine; perfettamente in linea con la lettura registica, l’opera non ha più nulla della fiaba musicale o del racconto epico-medioevale secondo la tradizione, ma diventa una vicenda esistenziale che occulta colpe insanabili ed errori di valutazione; più che dal mito, il dramma personale dei due protagonisti è spesso sostituito dal fragore del resto dell’umanità, impegnata in lotte per il potere e in contrasti di natura religiosa (l’opposizione tra paganesimo e cristianesimo nelle parole di Ortrud); ma Lohengrin ed Elsa sono solitari, si distruggono a vicenda senza che nessuno possa aiutarli. Per questo Barenboim alterna sempre due livelli di accentuazione musicale: i disegni e le trame degli archi, le tinte elegiache dei legni, a rappresentare il brivido di paura che i protagonisti continuamente provano, e la magniloquenza solenne degli ottoni, dell’organo, dei grandi pezzi d’insieme, a dimostrare come la Storia collettiva tenti di mascherare le tragedie individuali con apparati di potenza (in questo caso con i mezzi espressivi della musica) destinati però a fallire.
Sin dal preludio è evidente come il direttore esalti tutti quei caratteri armonici e dinamici tipici del Wagner tristaniano oppure, sul versante opposto, nibelungico. Per questo motivo l’Orchestra della Scala non ha un attimo di tregua, e si rivela eccezionale nel corrispondere a ogni richiesta di Barenboim: anche nelle zone di passaggio o nei concertati dominati da altre famiglie strumentali, violini, viole e violoncelli scandiscono nettamente gli irti disegni dello spartito, in modo che ogni particolare del contrappunto e delle modulazioni risulti percepibile. Allo stesso modo, i Leitmotive regali collegati ad Heinrich, al suo Araldo, al coro, sono enunciati in maniera squillante, solenne, con quell’austerità che caratterizza piuttosto gli ottoni della Tetralogia; Barenboim sembra indicare nelle innumerevoli fanfare del Lohengrin una serie di strutture preparatorie ai temi corali della Götterdämmerung, per far intuire la vacuità del potere, tanto nell’epopea nibelungica quanto già nella precedente opera romantica. Non a caso la magniloquenza degli ottoni esprime una situazione scenica, senza avere valore assoluto: nella stretta del finale I, allorché si prefigura l’unione di Lohengrin ed Elsa e il male sembra sconfitto, il direttore attenua (anziché esaltare, come ci si aspettava sulla base delle sonorità precedenti) i volumi orchestrali; l’attenzione va infatti riservata all’amore intimo dei protagonisti, per una chiusa di atto solenne ma intimamente vissuta. Forse il recente allestimento di Siegfried, nell’ambito del Ring scaligero in completamento entro la prossima primavera, ha influito sull’attuale Lohengrin, suggerendo a Barenboim una lettura in prospettiva storica, specie delle sonorità e delle dinamiche orchestrali, del Wagner più maturo.
Il direttore è talmente attento alla scrittura che anche nei momenti in cui l’orchestrazione è ridotta, i tremuli degli archi risaltano vivissimi: nel duetto Ortrud-Telramund all’inizio del II atto questo fa sì che la tensione del progetto diabolico ordito dai due diventi percepibile, e renda inesorabile l’apparente staticità della scena. Ma l’intero II atto, con la sua dilatazione dei tempi narrativi rispetto al I, scorre in modo omogeneo verso il sontuoso finale corale. Due momenti musicali – tra i tanti memorabili – meritano una menzione speciale, poiché pervasi da un unico sentimento, una specie di pudore negli strumenti e nelle voci, quando i protagonisti si confessano, agli estremi dell’opera: il sogno di Elsa a inizio del I atto (In lichter Waffen Scheine) trapuntato dagli accordi nettissimi dell’arpa, e la rivelazione di Lohengrin nel finale del III (In fernem Land, unnhabar euren Schritten), sospesa dalla leggerezza degli archi.
Una direzione sicura, chiara, convincente, con Barenboim sul podio era assicurata in partenza, considerata la sua straordinaria frequentazione wagneriana, in particolare con l’Orchestra della Scala; ma la qualità dell’esecuzione è eccellente grazie ai cantanti. Jonas Kaufmann è un Lohengrin perfettamente credibile, dalla voce omogenea e fluida, molto abile nell’alleggerire e smorzare il volume del fiato e l’intensità espressiva; fermo, incisivo, pur senza essere autoritario, negli imperativi del I atto (a Elsa, Nie sollst du mich befragen); diafano ed evanescente nel racconto del III, che inizia con un pianissimo appena percepibile, per poi raggiungere l’accento dell’epica (forse per l’unica volta in tutta l’opera) sui nomi del Graal e del padre Parsifal. Kaufmann ha voce baritonaleggiante, un timbro piuttosto scuro (anche più di Tómasson, che interpreta Telramund), e si distanzia molto dai Lohengrin del passato, dalla voce chiara e angelicata; è piuttosto l’ultimo di una serie di tenori wagneriani come Domingo o Heppner, dal colore brunito e dal registro di robusta compattezza. Kaufmann è inoltre particolarmente idoneo alla regia, che esige un protagonista insicuro, impaurito, ben diverso dal celeste inviato dei Cavalieri del Graal del racconto medioevale. La sua principale abilità consiste nel fraseggio dei pianissimi, molto suggestivi, anche se non privi di qualche inflessione di gola; e poi viene la bravura del grande interprete, dell’attore ormai esperto nel ruolo.
Finalmente guarita dall’influenza che le ha impedito di cantare le prime tre recite (in cui è stata sostituita da Annette Dasch) Anja Harteros ha debuttato nella parte di Elsa, rivelandosi straordinaria sia come interprete vocale sia come personaggio parallelo a Lohengrin, quindi con tutta l’emotività, l’angoscia, il terrore che la lettura musicale e registica le richiedono. Anche la Harteros (che alla Scala fu Amalia nel Simon Boccanegra del 2010, già diretto da Barenboim, e nello scorso Agosto ha cantato nella Messa di Requiem di Verdi) ha voce ferma, registro compatto, acuti sicuri: un’impostazione perfetta, insomma, lontana da tentazioni di emissione angelicata o compiaciuta. La sua Elsa ha riscosso un apprezzamento entusiastico da parte del pubblico, al pari del tenore; e i due artisti sono in effetti un abbinamento esemplare di vocalità, recitazione, intesa attoriale.
Voce di autentico mezzosoprano acuto, come richiesto per la parte, Evelyn Herlitzius impersona Ortrud in modo eccellente; sebbene non abbia tratti così distintivi, che la contrappongano alla voce della Harteros (anche a causa della somiglianza timbrica), il mezzosoprano è abilissimo nel duetto centrale del II atto, in cui inganna Elsa con gli accenti dell’ipocrisia e della finzione, ricorrendo a misurati portamenti vocali e a emissioni lamentose. Il Telramund di Tómas Tómasson è l’elemento vocale più debole della compagnia: pur efficace nella resa del personaggio, tratteggiato con signorile distacco rispetto agli eventi, il baritono rivela difficoltà nell’emissione degli acuti (forzati, soprattutto nel I atto); e poi troppo spesso l’intonazione accusa cedimenti oppure si risolve in note fisse. René Pape è, al contrario, un Heinrich perfettamente a suo agio, autorevole e sicuro; cantante wagneriano fuoriclasse, capace di risolvere in modo convincente ogni passaggio difficoltoso grazie all’esperienza e alla tecnica (e non importa se qualche nota acuta fuoriesce ormai un po’ usurata). Corretto, anche se dalla voce non particolarmente incisiva, l’araldo di Zeljko Lucic; buoni i due quartetti di cavalieri brabantini e di paggi; straordinario il coro istruito da Bruno Casoni, più volte schierato sui tre lati interni della scena, in modo che il ventaglio delle voci si possa apprezzare al meglio: il celebre inno nuziale che apre il III atto (Treulich geführt, ziehet dahin), con le masse corali appena dietro la scenografia, è un momento di meraviglioso incanto, prima che la tragedia del disvelamento precipiti.
Si diceva in apertura di un Lohengrin magnifico; per quanto riguarda regia e allestimento scenico l’aggettivo non nasce dalla semplicità o dalla linearità. Anzi, tutto sul palcoscenico è molto complesso, di momento in momento si stratifica una serie di suggestioni, di reminiscenze, di gesti e di atteggiamenti simbolici, di cui non si può rendere conto nel dettaglio. Alla Scala Claus Guth ha realizzato nel marzo scorso la regia della Frau ohne Schatten di Strauss: uno spettacolo claustrofobico, foderato di scuro legno in interni invalicabili. La struttura del Lohengrin è più complicata ancora, a tratti anche cervellotica, forse eccessivamente psicoanalitica, ma senza dubbio attenta alle indicazioni musicali e alle circostanze leitmotiviche (più che alle indicazioni del libretto: gli elementi tradizionali, il cigno, il fiume, la navicella, mancano del tutto, ma sono adeguatamente sostituiti dall’accurata e intensa recitazione di tutti gli interpreti). In tutti e tre gli atti i lati del palcoscenico sono occupati da una struttura abitativa di tre piani, squallida e grigia, a metà tra le case di ringhiera e il cortile interno di un carcere: il perimetro dei luoghi deve evidentemente opprimere i personaggi, al pari dello spazio scenico centrale, che resta libero, oppure è ingombro di una scala con soppalco, intrecciata di edera; di un semplice tavolino, a cui siedono Ortrud e Telramund nel II atto per ordire l’inganno; di un canneto palustre attorno a uno stagno (il paradossale interno della casa nuziale di Lohengrin ed Elsa nel III). C’è poi una pianola, in tutti e tre gli atti, dietro la quale si nascondono il doppio di Elsa e del fratello Gottfried ancora bambini; a essa si accosta Ortrud come una severa istitutrice ottocentesca, per impartire lezioni di musica alla piccola Elsa; su di essa si abbandonano i due protagonisti nei momenti di più cupa disperazione. All’Ottocento rimandano anche i costumi, sobri o borghesemente sfarzosi; Elsa sempre in bianco, Ortrud sempre in nero. Ma soprattutto, nell’atmosfera plumbea del sogno e nella luce gelida delle varie scene, sono sparse ovunque piume di cigno: le rinviene Elsa, Lohengrin le tiene pensosamente tra le mani, a esse ammiccano con perfidia Ortrud e Telramund. È l’antefatto su cui nessuno dei personaggi pare avere le idee chiare, almeno fino al prodigio finale che trasforma il cigno di Lohengrin nel redivivo erede al trono di Brabante. L’attore che lo impersona è un ragazzo dai panni dimessi, che attraversa più volte la scena con un’ala di cigno cucita sulla manica della camicia, mentre i protagonisti sono sempre più oppressi da paure e inquietudini da incubo. Le piume di cigno sono emblema di un bene perduto, di quella salvezza cui tutti aspirano e che nessuno raggiunge, sono nostalgia e rimpianto per “altro” da sé in cui è riposta (vanamente) la speranza. Il momento più icastico è il finale II: quando gli accordi organistici si smorzano e cedono il passo ai temi dell’inganno e del male, Lohengrin ed Elsa avanzano verso il pubblico in eleganti abiti nuziali, per entrare nella chiesa; simmetricamente, verso di loro, muovono dai lati Ortrud e Telramund; e i due sposi si stringono in un abbraccio convulso, non per trasporto amoroso, ma per terrore.
Se è lecita una battuta, a proposito del fantomatico cigno, che compare in forma umana (mai quando previsto dal libretto), le cui piume sono sempre tra le mani dei personaggi, valgano le parole di chi può permettersi un’ironia professionale: «ecco fedelmente nevrotico e “puro folle” (come suo padre Parsifal), il magnifico Jonas Kaufmann, molto simile al Bob Dylan idolo rock dei giovani nel Sessanta. […] Ma quel puro folle non ha già ammazzato un altro cigno gentil? Allora è un brutto vizio, direbbe la nonna» (Alberto Arbasino sul «Corriere della Sera» del 17 dicembre). Al termine dell’opera Lohengrin non riparte affatto, perché si accascia sulla scena; come l’eroe antico (ma ancor più come l’uomo postmoderno) egli nasconde in sé un segreto e una colpa che nessuna traversia può espiare. La rivelazione del nome è la denuncia di tale dramma, e la sua irresolubilità non può che suggellarsi con la morte; dopo i malvagi Telramund e Ortrud muore anche l’eroe positivo, Elsa è nuovamente abbandonata e sola, e analogo destino di sbandamento sembra interessare il resto della collettività. Foto per gentile concessione dell’Archivio Teatrale della Scala