“Quell’uom dal multiforme ingegno”: Enric Martinez-Castigliani

Approfittiamo della presenza a Venezia del baritono Enric Martinez-Castignani, tra i protagonisti del Več Makropulos (Il caso Makropulos) in scena in questi giorni al Teatro La Fenice, per proporgli un’intervista, che ci fa l’onore e il piacere di accettare. Ci vediamo davanti alla Fenice. Io indosso un cappotto a doppiopetto blu, lui un giubbino casual di buon gusto e i jeans: corpo snello con tratti decisamente latini, la barba nera che spunta appena sul viso, neri i corti capelli finemente increspati, due occhi scuri vivaci e penetranti come la voce dal bel metallo brunito.Lo conduco al Caffé Florian. Ci sentiamo subito a nostro agio nella saletta rococò, nonostante il vociare e lo stovigliare di avventori distratti. Iniziamo la nostra chiacchierata: e non sentiamo più nulla al di fuori delle nostre voci. Mi accorgo di essere un po’ emozionato: è la mia prima intervista e ho di fronte un artista di livello internazionale, dal repertorio vastissimo e dai molteplici interessi.

Come ti è venuta la passione per la musica e il canto? 
Questa passione risale a quando ero piccolo. Forse è stato complice mio nonno, che suonava il pianoforte per diletto. Poi a tredici anni ho cominciato a studiare musica in una piccola accademia: all’inizio cantavo in quartetti, in gruppi da camera. Poi ho affrontato un repertorio sempre più vasto: innanzitutto quello dell’opera buffa, ma non solo, anche quello liederistico (Schubert, Schumann). A questo riguardo è stata fondamentale l’esperienza di studio fatta a Mannheim, dove ho imparato tutto il repertorio tedesco, per questo sono forse l’unico baritono spagnolo ad essere scritturato per interpretare
Winterreise, Schwanengesang o Dichterlibe. A Mannheim mi sono fatto l’idea di quanto sia variegato il nostro mestiere, che spazia ben al di la del teatro musicale. Così quando mi hanno proposto un autore come Janácek, la mia formazione musicale mi ha dato la forza di accettare questa sfida. Del resto, mi piace esplorare cose nuove. La musica contemporanea l’ho fatta fin dall’inizio e continuo a farla, anche se adesso sono più selettivo. Ho affrontato, tra l’altro,, la Serenata op. 24 di Schönberg, che prevede un numero per baritono davvero “infernale”, oltre a opere di vari compositori spagnoli. Al Liceu di Barcellona ho cantato in Hangman, Hangman! di Leonardo Balada e nella Cabeza del Bautista di Enrique Palomar.
Quale o quali i maestri di canto che ti hanno dato di più, anche dal punto di vista della versatilità? 
Sono fondamentalmente quattro. La prima è Maria Dolores Aldea, la mia maestra spagnola, una brava cantante, vincitrice del Concorso “Viñas” e grande liederista; poi
Gerard Souzay, un baritono francese, purtroppo scomparso, che a sua volta mi ha fatto conoscere il pianista Dalton Baldwin, il maestro di Jessye Norman, con cui ho anche fatto dei concerti in Giappone; infine Carlos Chausson, grandissimo baritono spagnolo, che ha cantato a lungo in centro Europa, con cui ho studiato per dieci anni il repertorio buffo. A dire il vero per quanto riguarda l’opera c’è un’altra maestra con cui non ho studiato, ma è sempre stata un punto di riferimento per me: Marilyn Horne.
Come vedi la situazione dell’opera e, più in generale, della musica e della cultura in Italia rispetto ad altri paesi?
Io conosco quello che avviene in Europa e anche in America. Negli Stati Uniti, ad esempio, c’è una legge che sul finanziamento dei teatri molto avanzata che ha aperto all’intervento di sponsor privati, consentendo ai teatri di lavorare bene. Qui in Italia sta succedendo quello che è successo in Spagna, dove i teatri, a causa della crisi, cominciano a crollare economicamente. Di fronte a questa situazione si cerca di reagire proponendo un repertorio classico, come fa peraltro la Fenice, con lo scopo di attirare il grande pubblico.
Tornando a Več Makropulos
, quali difficoltà hai incontrato nel ruolo di Kolenatý
É semplicemente il ruolo più tremendo che ho fatto e farò. Quando me l’hanno proposto, ho accettato con un pizzico di incoscienza, invogliato dall’idea di lavorare con Robert Carsen, ma appena ho cominciato a studiarlo mi sono reso conto che era una vera mazzata. La parte si basa su un continuo declamato. La prima difficoltà è impararla
tout court, poi impararla musicalmente. Ma c’è un’ulteriore difficoltà dovuta alla particolare scrittura di Janáček, che a volte, in corrispondenza di un testo molto lungo, prevede una semplice semibreve, lasciando all’interprete la scansione ritmica. Un ruolo definito da Cheryl Barker – che interpretava Emilia Marty a Strasburgo, dove ho debuttato come Kolenaty – come il più difficile della storia dell’opera, tanto che nessun baritono che l’abbia affrontato una volta se l’è sentita di ripetere l’impresa.
Quali sono i punti di forza, le attrattive di questo personaggio?

É un ruolo molto teatrale, che richiede gestualità, movimento. La regia di Carsen, per quanto mi riguarda, non sembra difficile da realizzare sulla scena, tuttavia posso assicurare che l’inizio dell’opera è veramente impegnativo. Infatti oltre al canto, ci sono tante piccole azioni da svolgere da parte dell’indaffaratissimo avvocato Kolenatý.
Qual è il tuo giudizio sulla musica di Janáček e, in particolare, sull’opera che interpreti alla Fenice? 
Il suo modo di comporre è assolutamente spettacolare. Si deve però entrare gradatamente nel suo mondo musicale, ascoltare diverse volte. All’inizio sembra incomprensibile, ma poi ti rendi conto dell’importanza di questa musica, in cui fondamentale è il testo, al pari dell’elemento timbrico e di un uso a volte minimalista dell’orchestra, che con straordinaria ed originale forza espressiva schiude universi affascinanti.
E con il cèco come ti sei trovato? 
(
Scoppia a ridere)Ci ho messo dieci mesi a imparare la pronuncia frequentando un corso, così piano piano il mio cervello si è adeguato. Del resto, conosco diverse lingue: il catalano, il castigliano, l’italiano, il tedesco e recentemente ho cominciato a parlare un po’ di francese. Devo dire che ho una certa predisposizione per le lingue.

Parlaci del tuo rapporto con Robert Carsen. La regia ideata per
Věc Makropulos, secondo te, esprime adeguatamente sulla scena la musica e il dramma? Asseconda le esigenze del canto? 
Ho con Robert un rapporto bellissimo. All’inizio è stata dura. Lui lavora molto velocemente e molto intensamente dalle nove del mattino alla otto di sera, in quanto vuole che nulla sia casuale. E pretende accanto a sé artisti altrettanto rigorosi e impegnati. Anch’io ho dovuto lavorare come un pazzo non solo quand’ero in teatro a Strasburgo durante le prove di Več Makropulos
, ma anche quando ero a casa, nel soggiorno del mio appartamento, dove cercavo di riprodurre la mise en scène e continuavo a studiare. Robert era sempre più soddisfatto della mia preparazione. Così si è stabilita tra noi una relazione molto intensa. Ogni giorno mi chiedeva un po’ di più. Lavorare con lui è molto impegnativo, ma mi piace moltissimo, anche perché è l’unico modo di arrivare al fondo del ruolo. Dopo questa esperienza Robert mi ha offerto di seguirlo in altre due produzioni janáčekiane: Příhody lišky Bystroušky ( La volpe astuta) e Z mrtvého domu ( Da una casa di morti). Ne sono particolarmente orgoglioso. La sua regia di Več Makropulos è, a mio parere, la più bella tra quelle di tutta la mia vita artistica: né moderna é antica; spiega tutto alla perfezione e, inoltre, è molto rispettosa del testo e delle esigenze dei cantanti. Robert chiede sempre prima di adottare una determinata scelta registica e, grazie alla sua lunga esperienza, sa dove può arrivare e con chi.
Tu hai lavorato in tanti teatri, e immagino che ogni volta provi delle sensazioni particolari, legate al luogo in cui ti trovi. Quali sensazioni ti suscita lavorare alla Fenice e a Venezia? 
Ogni città in cui vai è un mondo diverso. A Venezia mi trovo benissimo, mi piace passeggiare immergendomi nella sua atmosfera così particolare e visitarla con calma, non da turista “mordi e fuggi”. Ma ti racconto un episodio, che può far capire quanto sia stato affascinato da questa città e dal suo prestigioso Teatro La Fenice fin dal primo momento. Vari anni fa mi trovavo qui per turismo. Camminando sono arrivato di fronte alla Fenice. Mi sono fermato e ho detto a me stesso: “Un giorno canterai qui”. Mi è venuto spontaneo. Sono molto felice che le mie parole si siano avverate.
Quali nuove sfide intendi affrontare nel prossimo futuro?

Tra le altre cose, Agrippina di Händel e il Requiem di Mozart con Neville Marriner. Ma una delle sfide che ritengo più importanti è quella di avvicinare la cultura alla gente, applicando il Marketing 3.0 come già si fa nelle aziende. Esso non non è finalizzato solo alle vendite, ma ad arrivare al cuore delle persone, a rispondere alle loro necessità interiori. Ritengo fondamentale, in un periodo di crisi come questo, trovare nuove strategie per salvaguardare la cultura. Un esempio è offerto proprio dalla Fenice, che mantiene sempre alto il numero di recite, associando opere di grande repertorio a lavori contemporanei, produzioni già collaudate a produzioni nuove. In tal modo le risorse accumulate col Barbiere di Siviglia, La traviata, ecc. possono essere utilizzate per proporre al pubblico un’opera meno nota come Več Makropulos.

Se dovessi definire la tua voce? 
È una domanda difficile. Un interprete come Leo Nucci può affermare : “Io ho una voce verdiana”. La mia voce non è comune, è molto duttile e con un registro molto ampio, che mi permette un vasto repertorio, anche se considero comunque l’opera buffa il suo
habitat naturale. Dopo Janáček fare Händel o Rossini è un toccasana, perché la voce ritrova le sue origini e poi perché in tal modo si sviluppa. La mia voce si sta facendo più grande e le mie capacità interpretative più raffinate. Mi sono reso conto che anche nel repertorio buffo bisogna “cantare”, evitando i facili effetti. In questo senso Bruscantini è un vero maestro.
Cosa fai quando non lavori? 
Amo  la vita tranquilla, curare il mio piccolo orto sulla terrazza della mia casa con le zucchine e i pomodori. Questo mi serve per ricaricarmi e dare il meglio di me stesso una volta tornato sul palcoscenico. Ma mi piace anche aiutare la gente, gli amici, i giovani cantanti, a cui non nego mai un consiglio.
Da un wagneriano un’ultima domanda: ti piace Wagner? 
Il repertorio wagneriano è difficile anche per i musicisti come me. Ho cominciato a conoscerlo a piccole dosi come fa un assaggiatore di vini o di liquori. Quando studiavo a Mannheim ogni anno andavo ad assistere ad un’opera di Wagner, una sola, nel locale teatro, che ne ha sempre in cartellone. E questo in base al progetto ben preciso di avvicinarmi al suo teatro musicale. Prima Tannhäuser
poi Lohengrin, poi Fliegende hollander (l’Olandese volante), che amo in particolare. Inseguito è stata la volta della Tetralogia, per finire col Tristano, di cui mi sono innamorato. Adesso Wagner mi piace enormemente. (Foto David Ruano)
Altre notizie su Enric Martinez-Castignani le trovate nel suo sito personale