Ricordando Arrigo Boito (1842 – 1918) a 180 anni dalla nascita 1: “Mefistofele” (1875)

Arrigo Boito (Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918) da giovane fu uno dei maggiori esponenti della Scapigliatura milanese, all’interno della quale operò come poeta (Il libro dei versi e Re Orso), librettista, compositore e critico teatrale pubblicando i suoi articoli sul settimanale «Figaro», da lui diretto per un certo priodo di tempo insieme al poeta Emilio Praga e su molte riviste tra cui la «Perseveranza», il «Museo di Famiglia» e il «Giornale della Società del Quartetto».  Nato a Padova nel 1842 da Silvestro Boito, pittore e miniaturista, e dalla contessa polacca Giuseppina Radolinska, studiò violino, pianoforte e composizione sotto la guida di Alberto Mazzucato al Conservatorio di Milano dove strinse una fraterna e duratura amicizia con il compositore e direttore d’orchestra Franco Faccio. Insieme a quest’ultimo compose la cantata Il quattro  giugno e il mistero Le sorelle d’Italia, dei quali scrisse il testo poetico.
In campo teatrale il suo nome è legato alla stesura di libretti per altri compositori e, in particolar modo, per Giuseppe Verdi (rifacimento del Simon Boccanegra, Otello e Falstaff), per Franco Faccio (Amleto), per Alfredo Catalani (La falce) e per Amilcare Ponchielli (La Gioconda) e a due sue opere, Mefistofele e Nerone, rimasto incompleto.
Il Mefistofele, contrariamente a quanto accaduto per l’Amleto, dopo le disavventure iniziali, non è mai uscito dai cartelloni teatrali sia italiani che stranieri. Composto tra il 1866 e il 1868, Mefistofele, per il cui testo s’ispirò al Faust di Goethe, andò in scena alla Scala, diretto dallo stesso autore, il 5 marzo 1868 e fu un calmoroso fiasco che si ripeté anche dopo la decisione di rappresentare l’opera, divisa in due parti, in serate successive. Il 7 marzo apparve alla Scala un manifesto in cui si affermava la decisione di dividere lo spettacolo in due parti per aderire al desiderio di una parte del Pubblico, e si spiegava:
“Perché la divisione corrisponda al concetto poetico dell’opera, si darà una sera il Prologo, il primo, il secondo e terzo atto, che costituiscono la prima parte del poema di Goethe; l’altra sera si darà, oltre al Prologo, il quarto atto, l’intermezzo sinfonico e il quinto atto che costituiscono la seconda parte dello stesso poema” (P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1968, p. 284)
Ma si può imputare l’insuccesso della prima unicamente alla lunghezza dell’opera? Certamente la sua prolissità non poteva non stancare il pubblico milanese, ma soprattutto ciò che lo lasciò perplesso fu: la sua complessità in cui confluivano la prevalenza di significati filosofici e morali sull’elemento amoroso; la struttura in quadri che rendeva la trama difficilmente fruibile; il nuovo carattere integrativo e illustrativo dato all’orchestra; una chiara influenza wagneriana e una struttura musicale sinfonica oltre alla presenza del lungo Intermezzo sinfonico La battaglia. Se il pubblico reagì decretandone il fiasco, la critica non fu da meno, esprimendo giudizi contrastanti, che rispecchiavano la fedeltà o meno alla tradizione italiana. Tra i conservatori va registrata la voce di Gaetano Broglio il quale, rimproverando a Boito la sua tendenza a rinnegare la tradizione italiana, scrisse:
“Noi, levandoci il cappello a Wagner e a Weber, siamo sempre per Bellini e Donizetti; noi non vogliamo che l’arte degeneri scimmiottado la pallida e larvata scuola germanica (Ivi, p. 288).
Nel «Gazzettino Rosa» si legge:
“L’avvenimento ha avuto luogo, il Mefistofele nacque, visse e morì. Mon parturiens… il signor Boito non ci ha dato della musica, ci ha dato delle note”(Ivi, p. 279).
Di diverso parere furono Filippo Filippi e Marco Sala. Il primo, sulla «Perseveranza», scrisse:
“L’istrumentale del Boito è nutrito, come tutta l’opera, da un’armonia piena, sapiente e a volte anche nuova; i caratteri speciali di questa armonia sono una profusione di ritardi, di dissonanze, e la tendenza quasi sempre a non risolvere, come nel Prologo ove tutte le volte che si crede d’udire un accordo risolutivo, è invece un nuovo accordo sospensivo che arriva; per cui la melodia acquista una mirabile ampiezza di sviluppo, e c’è quell’indeterminatezza che così efficacemente esprime l’infinito soprannaturale. Questo carattere speciale dello stile di Boito è, mi pare, il solo che si approssimi un poco alla musica di Wagner e precisamente a quella trascendentale teoria della melodia infinita che rigorsoamente lo stesso Wagner non ha mai potuto praticare. Altri rapporti non ha la musica di Boito con quella dell’avvenire, se non è, in astratto, l’amore dell’idealità e dell’interpretazione rigorosa della parola, all’infuori di quei scipidi convenzionalismi che, voglia o non voglia, appartengono inesorabilmente al passato” (Ivi, pp. 288-289).
Marco Sala, a sua volta, annotò:
“Effettone, instrumentale perfetto – tutto stupendo, non capito […] Cavo il cappello al Boito. La musica ha molti difetti, moltissimi pregi. Nessuno in Italia sa far meglio. L’esecuziona assassina! Nessuno sta in piedi con simili cani” (Ivi, p. 286-287).
Il fiasco della Scala non scoraggiò Boito il quale, avendo intuito che i tempi non erano ancora maturi per un melodramma anticonvenzionale e avveniristico, decise di attuare profonde e significative modifiche. Eliminò così, oltre al quadro de Il Palazzo imperiale e all’Intermezzo Sinfonico, il Prologo in teatro, in cui un Critico Teatrale e l’Autore, prima che si alzasse il sipario, discutevano sia del dramma di Goethe al quale si erano ispirati letterati e musicisti sia di ideali enunciando teorie astratte;  ad essi rispondeva uno Spettatore che consigliava loro di non farsi udire dal pubblico che non avrebbe capito niente delle loro argomentazioni, desideroso solo di provare forti emozioni all’apertura del sipario. Egli, quindi, tagliò quelle parti che, a suo giudizio, intralciavano lo svolgimento della vicenda e, per dare all’amore di Margherita un ruolo centrale nella struttura drammatica, aggiunse il duetto Lontano, lontano e il brano Spunta l’aurora pallida il cui scopo era quello di dare una tinta sentimentale all’azione. Così modificato, Mefistofele andò in scena il 4 ottobre 1875 al Teatro Comunale di Bologna diretto da Emilio Usiglio con l’eccellente intepretazione di Romano Nannetti (Mefistofele), Italo Campanini (Faust), il giovane soprano Erminia Borghi-Mamo (Margherita/Elena) e fu un successo strepitoso che proiettò l’opera nei maggiori teatri italiani e stranieri. Per tutto l’Ottocento, infatti, l’opera, oltre ad essere rappresentata a Venezia diretta da Franco Faccio, a Torino, a Trieste, approdò a Londra diretta da Luigi Arditi, negli Stati Uniti, a Barcellona e a Varsavia, al Royal Italian Opera a Londra e al Metropolitan Opera House di New York per ritornare a riscuotere il successo anche alla Scala diretta da Franco Faccio (1881). Ormai l’opera appare spesso nei repertori teatrali avvalendosi di grandi artisti tra cui Carlo Bergonzi, Alfredo Kraus, Giuseppe Di Stefano, Placido Domingo, Luciano Pavarotti, il basso belcantista Samuel Ramey, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, Ferruccio Furlanetto, Montserrat Caballé, Mirella Freni e Renata Tebaldi.
L’opera è costituita da un Prologo, 4 atti e un Epilogo.
Prologo in cielo. Dopo un preludio, a cui fanno seguito i cori della prima falange celeste che inneggiano al Signore (Ave Signor degli angeli e dei santi), compare Mefistofele (Ave Signor, perdona se il mio gergo) che lancia una sifda al Signore affermando con sicurezza di riuscire a tentare il vecchio Faust. Il Chorus Mysticus accetta e Mefistofele va via certo della sua vittoria. Alla sua scomparsa entrano in scena i Cherubini, le Penitenti e le Falangi che innalzano una lode al Signore.
Atto primo. È la domenica di Pasqua e a Francoforte sul Meno si svolgono parate militari, cori e danze popolari, mentre Faust e il giovane allievo Wagner sono attirati da uno strano Frate Grigio che lascia delle spire di fuoco sulla strada. Giunto a casa Faust medita sull’amore di Dio per l’uomo (Dai canti, dai prati) e in quel momento è raggiunto dal Frate Grigio (Mefistofele) il quale si presenta (Son lo spirito che nega) e chiede a Faust, in cambio della sapienza e della giovinezza, la sua anima, che avrebbe ottenuta solo nel momento in cui Faust, appagato, avrebbe detto all’attimo fuggente: Arrestati, sei bello.
Atto secondo. Nel giardino di Marta, Faust, sotto il falso nome di Enrico, corteggia Margherita con la quale discute di religione dando una risposta ambigua alla domanda se crede in Dio, mentre Mefistofele tenta di sedurre Marta. Margherita vorrebbe trascorrere la notte con Faust e, poiché vive in casa con la madre, Faust le dà una boccetta dicendole che contiene del sonnifero, mentre in realtà è veleno. Nella seconda scena Mefistofele conduce Faust sul Monte Brocken (Su, cammina, cammina) per farlo assistere al Sabba romantico. Dopo aver ricevuto gli omaggi di streghe e di stregoni, Mefistofele intona la ballata Ecco il mondo scherzando sulla generale stupidità degli uomini e sul suo stesso ruolo di Male assoluto e di supremo tentatore. All’improvviso Faust vede apparire Margherita con un segnale rosso sul collo come se fosse stata decapitata. E di fronte al suo turbamento Mefistofele lo invita a non guardarla dicendo che è Medusa decapitata da Perseo.
Atto terzo. Margherita, condannata a morte con l’accusa di aver ucciso la madre e il figlio (L’altra notte in fondo al mare), è raggiunta in carcere da Mefistofele e da Faust che cercano di convincerla a fuggire (Lontano, lontano). La donna, però, riconoscendo in Mefistofele il diavolo, rifiuta di scappare pronta ad accettare la morte e in tal modo si riscatta dai suoi peccati (Enrico, mi fai ribrezzo).
Atto quarto. Sulle acque del fiume Penéjos, circondato da una lussureggiante vegetazione, galleggia una barca attorno alla quale nuota un gruppo di sirene che rendono omaggio alla bellezza di Elena. Sulla riva giace assopito Faust che sogna di avere una meravigliosa esperienza amorosa con Elena. Al suo risveglio Mefistofele lo informa che avrebbe assistito al Sabba Classico e subito dopo scompare, non grandendo di restare in quel luogo non adatto a lui. All’improvviso l’attenzione di Faust è attirata da un notevole numero di figure femminili che volano formando uno sciame volante. Sono le coretidi che danzano e cantano in onore di Elena della quale celebrano la bellezza che sembra irradiare luce tutto attorno. Faust si incontra con Elena e ne canta le lodi (Forma ideal purissina) riuscendo a creare un connubio tra arte classica e arte romantica quando insieme inneggiano all’amore (Ah!, amore, mistero).
Epilogo. Faust, tornato vecchio, si trova nella sua casa ma, sognando di costruire un nuovo mondo (Giunto sul passo estremo), non vuole dare più la sua anima a Mefistofele che cerca in tutti i modi di sedurlo. È tutto inutile perché Faust è affaascinato dalla visione celeste di schiere angeliche davanti alla quale pronuncia Arrestati sei bello. Mefistofele è sconfitto, mentre Faust si salva nel tripudio dei cori angelici.
Il Mefistofele rappresenta l’applicazione pratica delle idee sulla riforma del melodramma che Boito aveva professato nei suoi articoli apparsi nelle varie riviste in quanto è concepito anche con un occhio alle forme della musica strumentale. Per esempio il Prologo in Cielo è strutturato come una grande sinfonia in cinque movimenti tra i quali spicca lo Scherzo strumentale corrispondente alla sezione in cui Mefistofele scommette con Dio sull’anima di Faust. Dal punto di vista musicale, inoltre, gli accompagnamenti delle parti vocali non sono più dei semplici riempimenti secondo la moda dell’epoca, ma delle vere e proprie melodie lavorate seguendo il principio del contrappunto; l’orchestra diventa un personaggio come accade nelle opere di Wagner al quale s’ispirò anche per l’utilizzo di un’armonia cromatica evidente già nel coro di lode a Dio delle falangi celesti che esprimono così una forma di desiderio di raggiungere la sua bellezza e perfezione.