Ricordando George Gershwin (1898 – 1937). Parte 2: Lullaby (1919) e Rhapsody in blue (1924)

A 120 anni dalla nascita.
Lullaby per archi
Adagio dolce, Andante cantabile, Dolcissimo, Andante cantabile

Durata: 11′
Lavoro giovanile di George Gershwin, Lullaby fu composta tra il 1919 e il 1920, come esercizio di composizione che gli era stato assegnato dal suo maestro, il compositore ungherese, emigrato negli Stati Uniti, Edward Kilenyi Senior, con il quale il compositore statunitense continuava a studiare nonostante avesse conseguito una certa fama sia grazie al lavoro svolto  per la Tin Pay Alley (Vicolo della padella stagnata), un’azienda newyorkese specializzata nella scrittura di canzoni e nella stampa di spartiti agli inizi del Novecento sia grazie alla composizione di alcune canzoni come Swanee che fu inclusa da Aò Jolson nel musical Sinbad di Sigmund Romberg.
Lullaby è, come recita il titolo, una dolcissima ninnananna dalla struttura tripartita, nella quale appare già in nuce quella commistione di elementi classici e jazzistici che avrebbe contraddistinto la produzione matura di Gershwin. Dopo una breve introduzione (Adagio dolce), nella quale i violini primi con suoni flautati eseguono il motivo dell’accompagnamento, viene esposto il lirico e sincopato tema principale (Andante cantabile); molto breve è la sezione centrale (Dolcissimo) a cui segue una ripresa leggermente variata della parte iniziale.

Rhapsody in blue per pianoforte e orchestra
Durata: 15’ca

“Questa composizione mostra uno straordinario talento, poiché mostra un compositore giovane con obiettivi che vanno al di là di quelli del suo genere, lottando con una forma di cui egli è lontano dall’essere padrone. Nonostante tutto ciò egli si è espresso in una forma significativa e, nel complesso, altamente originale… Il suo primo tema… non è un puro ballo… esso è un’idea, o parecchie idee, correlate e combinate nel variare e contrapporre i ritmi che immediatamente incuriosiscono l’ascoltatore”.
Questo preciso, ben articolato e, nel complesso, esaltante giudizio critico, espresso da Olin Downes nella sua recensione uscita sul «New York Times» all’indomani della prima esecuzione della Rhapsody in blue di George Gershwin avvenuta all’Aeolian Concert Hall il 12 febbraio 1924, è un’importante testimonianza del grande successo di cui questa composizione, che si configura come un lavoro sperimentale in cui confluiscono, in una perfetta sintesi, il jazz e la grande tradizione sinfonica europea, ha goduto e continua a godere presso un larghissimo pubblico, nonostante siano trascorsi più di 90 anni. L’opera si inserì perfettamente nel progetto di Paul Whiteman, direttore della Palais Royal Orchestra di New York, di elevare la qualità della musica jazz facendovi confluire elementi della tradizione sinfonica europea. A tale fine egli organizzò un concerto sperimentale, nel cui programma figuravano, insieme ad alcune opere di compositori della tradizione classica, come Purcell, Schönberg, Bartók e Hindemith, quelli dello stesso Gershwin, di Kern e Berlin, autori di canzoni di musica leggera; il concerto, tenuto dalla cantante franco-canadese Eva Gauthier all’Aeolian Concert Hall  il 1° novembre 1923, riscosse un successo tale da indurre Whiteman a chiedere al Nostro di scrivere una composizione per pianoforte e jazz-band in cui il jazz fosse amalgamato con il sinfonismo classico. Così nacque Rhapsody in blue, la cui musica fu composta in brevissimo tempo tra la fine del 1923 e il mese di gennaio del 1924; l’orchestrazione fu curata da Ferde Grofé il quale stese la partitura contemporaneamente alla composizione della musica che via via riceveva dal compositore. La prima storica esecuzione, a cui erano presenti importanti esponenti del mondo culturale di New York, come Heifetz, Kresler, Sousa, Stravinskij e Rachmaninov, fu un successo enorme per il giovanissimo compositore che da quel momento si impose nel panorama musicale mondiale.
Dal punto di vista formale la Rhapsody in blue avrebbe dovuto essere, almeno nelle intenzioni del committente, un concerto di musica jazz, ma, sebbene la presenza di uno strumento solista, il pianoforte, avvicinasse la composizione a questa forma, il titolo faceva pensare piuttosto ad un lavoro in un unico movimento di carattere rapsodico, quindi, di struttura irregolare e, per certi aspetti, improvvisata. Tutti i temi, complessivamente cinque, secondo quanto rilevato da David Schiff, sono presentati nelle prime 14 misure ed evidenziano la straordinaria fantasia del compositore che, a proposito di questo suo lavoro, ebbe modo di manifestare le impressioni uditive e immaginifiche che sembravano scaturire non già dalla creatività di un solo compositore ma dalla sorgente nazionale e popolare della musica americana. Ecco le sue parole:
“La udii come una sorta di multicroma fantasia, un caleidoscopio musicale che venisse dal nostro paese, da quel crogiolo di razze e di costumi, da quell’incomparabile follia metropolitana che è la sintesi della nostra America”.
C’è solo da aggiungere che il primo titolo dell’opera, American Rhapsody, non a caso, evidenziava con maggiore efficacia il carattere americano della composizione nella quale l’autore aveva fatto confluire, con geniale creatività, elementi popolari e strutture ritmico-melodiche.