Roma, Teatro dell’Opera: “Lulu”

“LULU”
Opera in tre atti su libretto di Alban Berg da Erdgeist e Die Buchse der Pandora di Franck Wedekind
Musica di Alban Berg
Lulu AGNETA EICHENHOLZ
Contessa Geshwitz JENNIFER LARMORE
Giardarobiera di teatro/Studente/un Groom TAMARA GURA
Banchiere/Direttore del Teatro PETER SAVIDGE
Pittore/Un negro BRENDEL GUNNELL
Dottor Schon/ Jack lo Squartatore MARTIN GANTER
Alwa THOMAS PIFFKA
Schigolch WILLARD WHITE
Un Domatore/Atleta ZACHARY ALTMAN
Principe/Domestico/Marchese CHRISTOPHER LEMMINGS
Una Quindicenne ELEONORA DE LA PENA
Sua Madre SARA ROCCHI*
Arredatrice REUT VENTORERO*
Giornalista FRANCESCO SALVADORI
Cameriere DAVID RAVIGNANI
Primario/Professore/Commissario di Polizia ANDREY MASLENKIN
Attrice JOANNA DUDLEY
Attore
ANDREA FABI
*dal progetto “Fabbrica”- Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Alejo Pérez
Regia William Kentridge
Co-regia Luc De Wit
Projecton designer Catherine Meyburgh
Scene Sabine Theunissen
Costumi Greta Goiris
Luci Urs Shonebaum
Video Control Kim Gunning
Nuovo allestimento in coproduzione con Metropolitan Opera di New York, English National Opera e De Nationale Opera di Amsterdam
Roma, 25 maggio 2017
Rappresentata una sola volta all’Opera di Roma nel 1968, la Lulu di Alban Berg viene riproposta nel corso della stagione attuale nella versione completa in tre atti, l’ultimo dei quali restituito alla fruizione del pubblico grazie al lavoro di revisione e strumentazione di Friedrich Cerha. Proposta sicuramente interessante per un titolo espressione di un genere teatrale e musicale che ha, ed ha avuto entusiasti estimatori come altrettanto decisi detrattori fino ad essere inclusa nell’elenco delle forme di “arte degenerata” dal regime nazista e comunque di non frequente esecuzione in Italia. L’allestimento di questo spettacolo, già rappresentato alla Metropolitan Opera di New York nel 2015, è stato affidato al regista sudafricano William Kentridge, già noto al pubblico romano per il lungo fregio creato lungo gli argini del Tevere che narra la storia della nostra città mediante la realizzazione di una serie di quadri ottenuti per abrasione dei depositi biologici dalle murate. L’idea per dar forma al lavoro di Alban Berg anche in questo caso appare molto legata all’impatto visivo del segno, in questo caso ottenuto con l’inchiostro, che crea figure e forme in un continuo vortice di proiezioni le quali anticipano quanto i personaggi agiscono sulla scena, conferiscono una struttura ai loro pensieri o ai loro istinti o semplicemente richiamano in maniera astratta il clima e gli stilemi espressivi degli anni venti e trenta del secolo scorso durante i quali Berg concepì l’opera ispirandosi a due testi teatrali di Franck Wedekind. Le scenografie e l’arredo degli ambienti rimandano all’Art déco in un continuo muoversi di pannelli che definisce lo spazio delle varie scene. Le ininterrotte proiezioni che configurano un vero e proprio altro livello rispetto a quello nel quale agiscono i personaggi, spesso non avvengono su una superficie piana di sfondo ma scivolano sui vari elementi della scena, disegnando altre immagini e, interrompendo e distorcendo l’andamento ed il ritmo delle linee, guidano lo spettatore verso altri livelli della narrazione creando cesure o climax che va detto appaiono sempre molto ben armonizzati con quanti avviene sulla scena o è descritto dalla musica. Tra i vari temi presenti nel testo sembrano venir posti in evidenza quelli del cinismo, dell’instabilità del desiderio, della solitudine e dell’indifferenza e del degrado morale che cerca riscatto in una esasperata ricerca di piacere e denaro. Da qui probabilmente scaturisce la scelta di una recitazione molto asciutta e misurata, priva di accenni espliciti alla sessualità se non per l’esposizione delle gambe della protagonista e impostata secondo un ritmo crescente fino a giungere al finale di grande e riuscito impatto emotivo. Certo difficile per lo spettatore districarsi nel ginepraio del bombardamento semantico al quale viene sottoposto. Già non facile seguire la musica con tutte le sue simmetrie, specularità e frammentarietà in un susseguirsi di rapporti matematici che non è agevole cogliere al primo ascolto e forse neppure a quelli successivi. Poi certo affascinante la storia ma anche questa di sviluppo non proprio lineare. Infine il piano visivo, all’interno del quale la proiezione del film prevista dall’autore quale novità multimediale del tempo sembra quasi perdersi, in cui cercare di decifrare segni e simboli per trarre spunti di comprensione. Tutto questo sembra scontrarsi fragorosamente con la oggettiva necessità di leggere anche i sovratitoli per cercare di seguire la traduzione del lungo ed articolato testo in tedesco che tra le altre cose scorre anche assai velocemente e non solo nelle parti parlate. Forse data la lunghezza dello spettacolo e l’ambiziosa complessità di questo allestimento anche se fuori moda potrebbe non essere insensato ipotizzare il ricorso ad una edizione in italiano o in futuro nella lingua del paese nel quale verrà ripreso. La direzione del maestro Alejo Pérez aiuta l’ascoltatore a seguire con chiarezza il percorso emotivo dell’opera che viene sapientemente sviluppato in un crescendo che sviluppandosi nell’arco dei tre atti conduce al tragico finale, sottolineando ed armonizzando efficacemente i vari linguaggi e le molteplici forme musicali che costituiscono la partitura. E veniamo agli interpreti di questa opera. Assai omogeneo e ben armonizzato appare il cast nel suo complesso per quando riguarda livello vocale, aderenza al personaggio e ritmo di recitazione. Nel ruolo della protagonista Agneta Eichenholz ha sottolineato maggiormente la cinica indifferenza di Lulu che non il lato morboso e seduttivo probabilmente per scelta di regia e tecnicamente ha risolto in maniera più che convincente la lunga ed onerosa parte con voce sicura, estesa e ottima intonazione sia pure con qualche episodica fissità. Nel ruolo della contessa di Geschwitz il noto mezzosoprano Jennifer Larmore ha costruito la sua interpretazione in crescendo, con bella voce impiegata con sensibilità e sapienza tali da farle trovare nel finale colori ed accenti profondamente emozionanti. Ugualmente efficace Martin Gantner nel doppio ruolo del dott Schon e di Jack lo Squartatore. Bravo anche Thomas Piffka nell’impervia parte di Alwa risolta con partecipazione ma anche con qualche percettibile e probabilmente occasionale fatica vocale verso la fine, almeno nella recita da noi ascoltata. Di assoluto carisma vocale e scenico lo Schigolch di Willard White, che anche dal punto di vista timbrico abbiamo trovato la voce più interessante della compagnia. Nel complesso ottimo il livello vocale e scenico complessivo di tutti gli altri numerosi interpreti, tutti più che adeguati a risolvere egregiamente i ruoli a loro affidati. Un particolare plauso va al teatro per aver inserito con risultato più che positivo due giovani del progetto “Fabbrica” nel cast, Sara Rocchi e Reut Ventorero sia pure in due piccole parti, per l’opportunità loro offerta di fare un’esperienza artistica e formativa di alto livello e in un titolo di così rara esecuzione in Italia. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti da parte del non numeroso ma attento pubblico presente. Foto Yasuko Kageyama