Rudolph Nurevey: 80 anni dalla nascita e 25 dalla morte di un genio della danza

Il 2018, insieme ad altri anniversari di illustri nascite e morti, porta con sé il ricordo di uno degli uomini che hanno cambiato e hanno lasciato un’impronta indelebile nella danza del Novecento: Rudolph Nureyev. Il Teatro alla Scala di Milano lo omaggerà con “Serata Nureyev” dal 24 al 26 maggio.
Nato il 17 marzo del 1938 sulla Transiberiana in marcia, nei pressi del Lago Baikal nel corso di un viaggio della famiglia da Ufa a Vladivostok, dove lavorata il padre, militare di carriera, vide crescere la sua passione per la danza ascoltando musica alla radio; diede presto prova delle sue doti naturali nelle danze popolari e ricevette i primi elogi da parte dei maestri, soprattutto per la spiccata musicalità. Nel 1951 entrò per la prima volta nel teatro della sua città, Ufa, per assistere a un balletto nazionale, Il canto dell’airone, che lo lasciò estasiato. A fargli da madrina fu Ana Udeltsova, una maestra che era stata danzatrice nei Ballets Russes di Serge Diaghilev, che gli impartì i primi rudimenti della danza classica e seppe consigliarlo nei momenti opportuni. Iniziò a partecipare agli spettacoli dell’Opera di Ufa, finché gli fu possibile. All’età di quattordici anni, fu inviata per lui la richiesta di ammissione al Kirov di Leningrado (Teatro Marinskij di San Pietroburgo); lungo la strada ebbe la possibilità di essere esaminato a Mosca da un assistente di Asaf Messerer, col felice esito di essere ritenuto idoneo per l’ottavo corso della Scuola del Bolshoj  e la possibilità di passare in Compagnia dopo due anni. Nureyev, tuttavia, decise di tentare anche l’ammissione al Kirov, dove era possibile essere sostenuti da agevolazioni economiche che a Mosca sarebbero state inesistenti. Nella bellezza di una Leningrado a lui sconosciuta, venne ammesso al sesto corso dalla sua esaminatrice, la Signora Costravotskaja: il talento fu ampiamente riconosciuto, ma c’era bisogno di lavoro e studio per acquisire la tecnica. Iniziò la vita “quasi militare” fatta di giornate molto intense: quatto ore di lezioni di danza e poi altre quattro fatte di studio di altre materie come la letteratura, l’arte, la scherma e la fisica; gli allievi potevano assistere alle prove dei balletti ma non alle rappresentazioni serali. Nureyev scalpitava per ragioni caratteriali, ma anche per la differenza di età con i suoi compagni di studio. Fu presto inserito all’ottavo corso e affidato alle cure del Maestro Aleksandr Puŝkin (omonimo del grande poeta e scrittore), che non solo lo avrebbe istruito nell’arte della danza, ma lo avrebbe accolto nella propria famiglia come un figlio. Fu lui a scoprire in Nureyev la dote dell’attore, grazie alla quale avrebbe saputo piegare la tecnica alla verità del gesto. Il soggiorno a Leningrado fu ricco di soddisfazioni, amicizie, interesse per la musica e la letteratura. Il 30 giugno del 1958 danzò, ancora studente, la parte del principe ne Lo Schiaccianoci in scena al Kirov e anche il Pas de trois ne  Il Lago dei cigni. La stella nacque nello stesso anno al concorso nazionale di balletto classico di Mosca, il più importante della Russia, al quale Puŝkin lo aveva fatto partecipare in qualità di rappresentante del Kirov, con un brano del repertorio di grandissima difficoltà, Il Corsaro di Minkus-Petipa-Čabukiani, insieme alla diciannovenne promessa femminile Alla Sizova. Il pubblico ne fu estasiato e ottenne un bis; il filmato (ancora oggi in rete) fu diffuso in tutto il mondo. Scelto costantemente dalle danzatrici più esperte del Kirov, iniziò interpretare tutti i ruoli. Ma la compagnia era grande e i protagonisti si alternavano; non vi era ricerca di rinnovamento e Nureyev in iniziò a sentire il peso di una chiusura nei confronti del mondo esterno, laddove l’Occidente sperimentava nuovi linguaggi e innovava quelli tradizionali. Impossibile, per il suo carattere, inquadrare la propria vita e la propria arte negli schemi imposti in Russia, mentre in Europa la libertà di vivere e di interpretare diventava per i giovani artisti il desiderio irrinunciabile di affermazione del sé. I contatti con le compagnie occidentali finirono per accentuare il senso di malessere e insoddisfazione. Dopo una serie di tournée che abbracciarono anche città come Vienna e Berlino, arrivò, nella primavera del 1961, la grande tournée a Parigi e a Londra, dalla quale fu inizialmente escluso perché giudicato inaffidabile. La delusione fu grande. Ma, declassati Konstatin Sergeev e la moglie Natalia Dudinskaja a causa dell’età, Nureyev fu messo in lista per danzare i ruoli principali del grande repertorio. A Parigi fu immediatamente notato da Serge Lifar, già direttore del ballo all’Opéra e membro della giuria che gli assegnò il Premio Nijinski nello stesso anno, e da Raimondo De Larrain, direttore della Compagnia del marchese de Cuevas. Nureyev, benché lusingato, avrebbe seguito la compagnia a Londra, se un immediato ordine di rientro a Mosca per danzare al Cremlino (con tanto di assicurazione di potarsi comunque esibire a Londra nelle successive recite già previste dalla tournée) non lo avesse portato a temere il peggio ,mentre era in procinto di partire, visto il clima di sospetto già instauratosi attorno alla sua figura. E qui si consumò la fuga storica. Gettatosi tra le braccia della polizia francese, chiese asilo politico. Una «decisione improvvisa e insieme molto sofferta», avrebbe poi detto il danzatore; i bagagli già partiti per Mosca, la solitudine, il timore per quello che sarebbe potuto succedere valla sua famiglia in Russia, la paura di essere rispedito in patria. In Russia fu trattato come un traditore: la notizia non fu diffusa – contrariamente al clamore suscitato in Francia, Inghilterra, America  ̶  ma si tentò di riportalo comunque in patria tramite la famiglia. Fu inizialmente nascosto a casa di amici, circondato dai fotografi e dai giornalisti a ogni uscita. Ma la scelta fu irrevocabile: «Un uccello deve volare e io sono un uccello che è nato libero e non può stare in una gabbia». A ventitré anni era un rifugiato politico che aveva perduto la propria nazionalità, solo e senza un soldo in tasca. Ma presto nuovi amici ne divennero i garanti e piovvero contratti e generose offerte di lavoro. Iniziarono i trionfi e nacque il divo della danza. Il 23 giugno del 1961 era già sulla scena del Théâtre del Champs Elysées nel ruolo del principe de La Bella addormentata per la Compagnia del marchese de Cuevas: teatro gremito e sorvegliatissimo dalla polizia: trenta chiamate al proscenio e quindici minuti di applausi finali. Un trionfo. In una delle prime interviste dopo la fuga, rilasciata a Laura Bergagna e pubblicata il 24 novembre su «La Stampa» di Torino, Nureyev aveva sottolineato quanto in Russia si facesse di tutto per elevare l’uomo, dando molta importanza alla cultura, ma, una volta elevati, si venisse rinchiusi in una scatola ideologica. Sulla “libertà” dell’Occidente avrebbe invece sottolineato: «Qui si va a vedere un artista per ciò che di sensazionale c’è nella sua vita, non per ciò che sa fare. Il governo non fa nulla per elevare l’uomo, l’arte e la cultura sono trascurate. Si è liberi, ma spesso questa libertà è male usata; liberi di inventare parole che uno non ha detto, di dare a un uomo mille volti eccetto il suo».
Una svolta alla sua carriera fu data da Erik Bruhn, danese, danseur noble di grande tecnica e fascino, ammiratissimo. Recatosi a Copenaghen per studiare con Vera Volkova, allieva di Agrippina Vaganova, Nureyev studiava la tecnica Bournonville per acquisire autocontrollo, grazia, romanticismo, per fondere la Russia con l’Occidente. Bruhn fu per lui Maestro e modello. Si susseguirono i successi tra viaggi, televisione, spettacoli.
Altra pietra miliare nella sua vita fu l’incontro e la partership artistica (ma anche affettivamente filiale) con Dame Margot Fonteyn, di vent’anni più anziana e alla quale il sodalizio artistico con Nureyev permise di prolungare una carriera ormai quasi al capolinea. Danzarono insieme per la prima volta con il Royal Ballet di Londra il 21 febbraio del 1962: settantamila richieste per circa tremila posti. Un evento, un trionfo. La critica lodava la “ricostruzione” del personaggio di Albrecht per tecnica e profondità. In proposito, l’anno seguente, su «Ballet Annual» si leggeva: «Ha dato respiro a un personaggio generalmente piatto», un punto nevralgico del cambiamento indotto da Nureyev nella danza, l’interpretazione. In questo caso Albrecht cresceva accanto all’eroina del romanticismo più puro diventando uomo vero, rompendo non solo il culto della prima ballerina e il cliché interpretativo del nobile che si traveste da contadino, per rendere  anche l’uomo simbolo della spiritualità e del rimorso. Scrive Mario Pasi: «Nureyev tolse al ballerino classico, stile Ottocento, parrucche e ciprie, trucchi evidenti e gesti ormai sconsacrati. In più, cercò di entrare nello spirito del personaggio e di rendere così l’arte della danza anche arte dell’interpretazione. Non solo passi e virtuosismi, dunque, ma approfondimento del carattere. Così egli esaltò la doppia natura di Albrecht in Giselle e rese intenso il percorso dal libertinaggio un po’ fatuo del primo atto alla tragica consapevolezza del peccato nel secondo. Seppe apportare anche modifiche ai passi, magari inventandoseli di volta in volta, e arrivò anche a delle manipolazioni di grande effetto. Gli a solo poi introdotti nel Lago dei cigni o nella Bella addormentata, con la loro speciale intensità, segnarono un progresso nel coinvolgimento del pubblico, non più soddisfatto dalle semplicistiche esecuzioni basate sull’esteriorità. In Occidente Nureyev poté fare tutto questo, in Russia non gli sarebbe stato permesso».
Non fu tuttavia immune da critiche e pettegolezzi. Intanto alcuni teatri, che avevano rapporti di scambi con i sovietici, cedevano alle richieste che non lo volevano presente, in caso di tournée o di scambi: fu il caso del Teatro alla Scala, che nel 1964, per non vedersi privato di uno di spettacoli col Bolshoj, non avrebbe scritturato Nureyev per la stagione, rinviandolo a quella successiva. Gli inglesi lo difesero costantemente; l’American Ballet Theatre lo invitò nel dicembre del 1962 e Nureyev si impose con il Pas de deux del Corsaro, sui cavallo di battaglia. Divenne un nuovo Nijinskij nell’immaginario collettivo. Nello stesso anno Mario Porcile, fondatore del Festival internazionale del Balletto di Nervi, gli aprì l’importante finestra italiana sulla danza; fu poi la volta di Spoleto nel 1964, dove fu invitato al Festival dei due mondi, con Fonteyn, per presentarvi la propria versione di Raymonda. Circostanze familiari vollero che Dame Margot prendesse parte solo all’ultima recita, sostituita da Doreen Wells. Nel 1963 Frederick Ashton creò per lui e per Fonteyn Marguerite e Armand, un balletto romantico che ne esaltasse il temperamento e ne lanciasse un nuovo tipo di immagine. Altro grande successo. Si susseguirono gli spettacoli e i ruoli, le prime coreografie. Nel 1965 il Teatro alla Scala aprì le porte alla coppia storica con Romeo e Giulietta nella versione coreografica di Kenneth MacMillan. Nel 1966 avvenne l’incontro sulla scena con la danzatrice italiana più nota, Carla Fracci, in occasione della Silfide al Teatro dell’Opera di Roma. Nello stesso anno Nureyev firmò la prima sua coreografia originale por il Balletto dell’Opera di Stato di Vienna, diretta da Aurel Milloss, che gli offrì di mettere in scena un Tancredi su musica del compositore tedesco Hans Werner Henze (un recupero di un lavoro precedentemente messo in scena da un maestro di Milloss, Viktor Gsovski, ma che ebbe un cattivo esito, per cui Henze aveva ritirato la partitura). Ebbe un discreto successo. Nel 1966 fu chiamato alla Scala per allestire La bella addormentata, con Carla Fracci nel ruolo di Aurora. La cronologia delle sue apparizioni è molto fitta. Dopo poco è a Vienna per la rilettura del Don Chisciotte, nel quale il personaggio di Basilio rivelava l’aspetto brillante di Nureyev. Tra nuove creazioni per la coppia Fonteyn-Nureyev, inviti oltreoceano e nuove interpretazioni (si ricordi Le jeune homme et la mort di Roland Petit, creato negli anni Quaranta per Jean Babilée).
Negli anni Settanta fu il re del balletto, danzava senza sosta.  Nel 1977 approdò al cinema con Valentino di Ken Russell, nella parte del protagonista Rodolfo Valentino, il divo degli anni Venuti che, secondo la visione del regista, non era un semplice latin lover, ma un uomo dotato di un’ambigua forza di seduzione. Dopo il cinema venne la letteratura: dall’amore per la poesia di Lord Byron nacque Manfred, su musica di Čajkovskij, che andò in scena senza grande successo al Palais des Sports di Parigi il 20 novembre del 1979.
Alla fine del 1983 Nureyev assunse per la prima volta un incarico dirigenziale, ai vertici del Corpo di Ballo dell’Opéra di Parigi. Impose le sue regole e una forte disciplina a tutti, pretendendo di poter continuare a danzare anche fuori per sei mesi al’anno. Un periodo fatto di molte ombre per come decise di svecchiare il sistema, valorizzando comunque i giovani e danzando le proprie coreografie e non solo. Nel 1988 i suoi cinquant’anni furono festeggiati al Metropolitan di New York con una celebrazione che vide partecipare i migliori artisti del mondo della danza. Tornò in Russia due sole volte: una prima in un triste quanto rapido saluto alla madre malata, una seconda volta su invito del direttore del Kirov, Oleg Vinogradov. Ma quella non era più la sua terra.
Aveva girato il mondo e investito soprattutto in case; il suo sogno, però, era di avere una casa nel Sud Italia e la trovò nel mare di fronte a Positano, quando nel 1989 acquistò Li Galli, proprietà del grande coreografo Leonide Massine, messa non vendita dal figlio Peter.
Gli ultimi anni videro Nureyev impegnato nello studio e nella direzione d’orchestra, un sogno estremo per restare al centro dell’attenzione, per sentirsi ancora parte attiva degli spettacoli. Gli amici lo sostennero in alcuni spettacoli, ma non gli fu naturalmente possibile vedersi affidate orchestre di livello, come invece avrebbe voluto. L’ultima apparizione in pubblico, l’8 ottobre 1992 all’Opéra di Parigi  – in occasione dell’allestimento della sua ultima creazione, Bayadère –  aveva mostrato al mondo il suo irreversibile decadimento. Furono gli ultimi applausi.
Si spense dopo un mese di agonia, alle 15.45 del 6 gennaio 1993, giorno del Natale russo e dell’Epifania cristiana, all’ospedale  Nostra Signora del perpetuo aiuto di Parigi, nell’«inferno degli infettivi».
Una eredità, la sua, che ha cambiato il mondo del balletto. Cambiò la danza maschile togliendo l’uomo dall’ombra della donna, affiancò il divismo maschile a quello femminile che aveva imperato nell’Ottocento. Amato o detestato, è oggi considerato il più grande danzatore del Novecento, perché seppe risvegliare un’arte rinnovandone spirito, sostanza e significato.

* Le tappe salienti della vita di Nureyev sono state qui ripercorse con intento puramente divulgativo tenendo conto dei ricordi fissati nel volume di Mario Pasi e Luigi Pignotti, Nureyev. La sua arte, la sua vita, Sperling & Kupfer Editori, 1993. Un volume “affettivo” ma affidabile nella ricostruzione, sia pure spesso enfatica, delle tappe fondamentali della sua esistenza, perché vissute e ascoltate in prima persona dagli Autori. Mario Pasi (1927-2010), teorico e critico di balletto e di danza del «Corriere della Sera», aveva seguito da vicino la parabola artistica di Rudolf Nureyev; Luigi Pignotti è stato prima massaggiatore e poi manager di Nureyev, per ventisei anni al suo fianco.