Torino, OSN RAI: Schubert val bene una messa

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Ivor Bolton
Coro Maghini di Torino

Maestro del Coro Claudio Chiavazza
Organo Luke Green
Soprano Sylvia Schwartz
Mezzosoprano Olivia Vote
Tenore (I) Jeremy Ovenden
Tenore (II) Hjerrild Sune
Basso Umberto Chiummo
Wolfgang Amadeus Mozart : Sinfonia n. 35 in re maggiore KV 385 “Haffner”
Franz Schubert
: Messa in mi bemolle maggiore D 950 per soli, coro e orchestra
Torino, 12 dicembre 2013

Titolo di spicco nel concerto pre-natalizio dell’OSN RAI, la messa D 950 di Franz Schubert fu completata pochi giorni prima della morte del compositore, ed è il suo più severo lascito spirituale, di dimensioni notevoli sia nell’organico (cinque voci soliste anziché le solite quattro, sebbene sottoutilizzate) sia nell’ampiezza e nello sviluppo dei brani (un’ora piena di musica straordinaria per armonia e per strumentazione).
All’Auditorium “Toscanini” il gruppo dei solisti è infelicemente collocato tra orchestra e coro, nell’angolo di sinistra; scelta che costituisce un errore, perché pone ancor più in secondo piano i pochi interventi delle cinque voci, mentre il coro Maghini sfavilla in ciascuna sezione della messa, a partire dai toni supplicanti od osannanti del Kyrie e del Gloria. L’ascoltatore si chiede, però, per quale motivo un coro italiano, diretto da un maestro a sua volta italiano, pronunci la c palatalizzata come z sorda, secondo la tendenza fonetica del tedesco: «benedizimus te … zoeli …cruzifixus …», in una progressione di effetti ridicoli e disturbanti che culmina con «exzelsis» del Sanctus e con «pazem» del finale Agnus Dei. Forse vale la convinzione che ai tempi di Schubert questa fosse la pronuncia effettiva degli esecutori? Può essere; ma in terra italica la pronuncia del latino ecclesiastico non pone dubbi (perché non si tratta della lingua di Plauto o di Virgilio, ma di una tradizione tardo-medioevale), e l’adeguamento all’uso germanofono appare piuttosto provinciale.
Il direttore mantiene sempre in primo piano gli ottoni, in particolare i tromboni del Gloria, sbilanciando appena le sonorità sul versante della compassata fanfara; ma è la musica in sé, nella sua composta serenità, a rapire l’ascoltatore, e a condurlo in un territorio d’insperata dolcezza (l’attacco del tenore con il versetto «Et incarnatus est» è uno dei momenti più alti di tutta la produzione schubertiana, e Jeremy Ovenden lo porge con apprezzabile grazia). I due tenori hanno purtroppo voci chiare molto simili tra loro, e questo annulla la ricerca di contrasti all’interno del concertato (sempre il brano «Et incarnatus est»). Molto precisa Sylvia Schwartz negli attacchi, anche se i suoi acuti sono un po’ gridati nell’intervento conclusivo («Dona nobis pacem» dell’Agnus Dei). Corrette le voci del mezzosoprano Olivia Vote e del basso Umberto Chiummo. I contributi solistici, del resto, sono così ridotti da non permettere una piena valorizzazione delle qualità propriamente vocali. L’ascoltatore melomane potrebbe anzi dire che nella scrittura schubertiana i cantanti sono trattati poco più che da “pertichini”, come appare nell’invocazione finale dell’Agnus Dei, grandiosamente ripresa dal coro perché risalti il suo ruolo di unico vero protagonista della partitura.
La miglior qualità del Coro Maghini è probabilmente l’omogeneità vocale, impeccabile soprattutto nel Benedictus conclusivo: i gruppi maschile e femminile, che Schubert fa spesso cantare all’unisono, si fondono in un suono denso e compatto come quello di una canna d’organo. Sicuramente Ivor Bolton è molto attento alla concertazione di coro e di orchestra, alla scelta di sonorità marcate ma mai soverchianti (a parte la decisione di emarginare il quintetto vocale, tipico delle scuole anglosassoni), incline a staccare tempi incalzanti, funzionali alla climax drammatica insita nelle sezioni liturgiche. E il pubblico torinese apprezza moltissimo l’esecuzione, applaudendo a lungo il coro e l’orchestra, i cantanti e il direttore.
A introdurre il concerto era la sinfonia Haffner di Mozart, apparsa nella conduzione di Bolton come già filtrata da una certa severità liturgica, poiché non aveva nulla di scintillante e di ben rifinito. Nella testura strumentale emergevano abbastanza bene le striature scure dei fiati: non soltanto colore, ma fervore di ritmi sotterranei, indizio di inquietudini e di angosce percepite di lontano. Nella scelta dei tempi Bolton preferisce un brio risoluto (quello che applicherà anche in Schubert), come si coglie bene dal II movimento, privo di indicazioni specifiche ma solitamente eseguito come Andante. Forse un po’ troppo accentuata l’originaria allure militaresca della serenata Haffner, da cui la sinfonia deriva, nel III movimento (Minuetto – Trio), con il timpano che scandisce ossessivamente ogni segmento ritmico. Parimenti, nel IV trionfa l’aspetto della fanfara, e dunque ancora la sonorità degli ottoni, mentre i disegni degli archi sono appena abbozzati. Un Mozart fluido, ma un po’ sotto tono, evidentemente perché le prove sono state concentrate più sulla seconda parte del programma; se Schubert in generale val bene la fatica di una messa, la D 950 in particolare val bene una sinfonia mozartiana.