Arnold Schönberg (1874 – 1951): Gurre-Lieder (1913)

Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra. Libretto tratto dalla novella  ” En cactus springer ud ”  del poeta danese  Jens Peter Jacobsen (1847-1885), nella versione tedesca di Robert Franz Arnold (1899). Prima esecuzione: Vienna, Großer Musikvereins-Saal, 23 febbraio 1913
L’esecuzione dei Gurre-Lieder di Arnold Schönberg, che oggi ricordiamo a 110 anni dalla prima esecuzione,
 è  motivo di vanto per gli organismi concertistici che l’affrontano: le dimensioni abnormi del Lavoro, il suo organico strumentale gigantesco e la difficoltà di cogliere nel tessuto musicale motivo espressivo che ne renda unitario e personale l’aspetto poetico, sono motivi che nel corso degli anni hanno scoreggiato più di una istituzione e di un direttore d’orchestra. Ma proprio la loro eccezionalità “pratica”, diciamo così, non diminuisce il valore storico Dei Gurre-Lieder, uno degli ultimi e coerenti contributi che il giovane Schönberg al mondo armonico del romanticismo tedesco, prima che si matura asse definitivamente nella sua coscienza di artista la “necessità” una nuova organizzazione razionale dei suoni musicali, in quella sintassi che ha preso il nome di dodecafonia.
Nei Gurre-Lieder, dunque Schönberg non è ancora “dodecafonico”, e ciò valga tranquillizzare chi è ancora convinto che questa tecnica (oggi del resto considerata “superata” da tanti musicisti-esploratori) sia la più diabolica delle invenzioni del mondo contemporaneo. Lo stesso testo poetico, che è del poeta e scrittore danese Jans Peter Jacobsen (1847-1885), si colloca in pieno nell’atmosfera del romanticismo nordico, fra amore e fantasmi, “notturni” è cavalcate.
E Schönberg adegua la sua musica a questo clima, portando avanti il cromatismo wagneriano, con le sue inquietudini espressive, quasi volesse testimoniare con un’opera colossale il definitivo esaurimento dei vecchi moduli: così l’orchestra di Wagner, già gonfiata da Richard Strauss (che in quei primi anni del ‘900 era il compositore più in voga, il più attentamente seguito dalle “avanguardie” musicali) si dilata mostruosamente, includendo, nella compagine ormai tradizionale di certi strumenti, un numero abnorme di alcuni di essi: dieci corni, sei trombe, sei timpani, insieme con quattro arpe, xilofono, celesta e glockenspiel, il delicato  strumento di mozartiana memoria (le arie di Papageno, come si ricorderà, nel Flauto magico sono accompagnate dai campanelli). A guardare questa partitura, per la quale Schönberg fu costretto a farsi preparare una carte da musica speciale, con 48 pentagrammi per facciata, talvolta vien da pensare a Berlioz, quell’ “eccentrico spirito della Francia musicale”, come scrivevano nell’Ottocento, che aveva intuito con grande chiarezza molti degli sviluppi della musica della seconda metà dell’Ottocento; ma in Schönberg è come se le intuizioni di Berlioz,  incline ad affermare anche politicamente un certo gigantismo orchestrale, siano ormai giunte alla spasmodica conclusione del loro “servizio” romantico, quasi atto terminale di devozione di un rito, oltre il quale non c’è più nulla da dire.
I Gurre-Lieder ai quali Arnold Schönberg lavorò, con molte interruzioni, fra il 1900 e il 1911 (si trovava allora in estrema miseria, e viveva trascrivendo per piccoli complessi operette alla moda, come era capitato mezzo secolo prima anche al giovane Wagner), si articolano in tre parti: nella prima proceduta da un preludio orchestrale, il re Valdemar e la giovane Tove raccontano i loro amori nel castello di Gurre, che il re aveva fatto costruire per potersi incontrare con la sua donna.
Ai monologhi di questi due personaggi segue il canto della “Colomba dei boschi” che annuncia la morte di Tove, fatta assassinare della regina Helvig durante l’assenza del re. La seconda parte è dedicata a Waldemar, che, viene ucciso il suo ritorno, sempre per vendetta. La terza, infine, esprime il clima pienamente fantastico e sognante del dramma: lo spirito di Waldemar cavalca eternamente alla ricerca della fanciulla amata, e questa ricerca viene narrata da un  recitante in un melologo che già preannuncia la tipica “Sprechmelodie” dello  Schönberg successivo. Il ciclo si conclude con un brano corale.
Da qui il testo della parte vocale

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