Béla Bartòk: “Il castello di Barbablù” nel centenario dalla prima rappresentazione

Famoso per la sua vasta produzione strumentale e cameristica, Béla Bartòk diede il suo contributo al teatro musicale con A Kékszakállú hercegvára (Il castello di Barbablù), opera in un atto su libretto in lingua ungherese di Béla Balázs che s’ispirò al racconto francese Ariane et Barbe-bleue di Charles Perrault e al dramma del drammaturgo belga Maurice Maeterlinck. Originariamente Balázs aveva pensato di scrivere il libretto  per Zoltán Kodály, ma poi lo cedette a Bartók che era stato iscritto a partecipare, nel 1911, al concorso per il premio Ferenc Erkel. Bartók vi lavorò alacremente ma non vinse il concorso. Quando nel 1912 gli editori musicali Rózsavölgyi organizzarono un secondo concorso, egli decise di parteciparvi apportando alcune modifiche al lavoro, ma anche questa volta l’opera, avendo solo due protagonisti, fu considerata di scarso rilievo drammatico. Ciò scoraggiò il compositore che nel finale di una lettera alla moglie, alla quale l’opera era stata dedicata, scrisse:
“Ora so che non la potrò mai ascoltare in questa vita. Mi avevi chiesto di eseguirla per te, ma ho paura che non sarò in grado di farlo. Farò sì che possiamo almeno piangere di questo insieme”.
Con l’aggiunta di un nuovo finale, nel 1917, Il castello di Barbablù finalmente calcò le scene del Teatro dell’Opera di Budapest il 24 maggio 1918 con Oszkár Kálmán e Olga Haselbeck e con Egisto Tango sul podio. In seguito all’esilio del librettista l’opera non fu più rappresentata in Ungheria fino al 1936 mentre performances ebbero luogo a Francoforte (1922) e a Berlino (1929). Il 5 maggio 1938 ebbe la sua premiére in Italia al Maggio Musicale Fiorentino, al Teatro San Carlo di Napoli il 19 aprile 1951 con Mario Petri e Ira Malaniuk e alla Scala il 28 gennaio 1954. Per tutto il Novecento l’opera è stata rappresentata nei maggiori teatri italiani, in America, in Argentina, in Francia e in Inghilterra. Ancora oggi continua ad essere eseguita, infatti il 15 dicembre 2016 ha calcato le scene del Teatro dell’Opera di Israele a Tel Aviv.
La vicenda si svolge in un periodo non ben definito nella sala buia di un castello con sette porte chiuse e ha per protagonisti Barbablù e la nuova moglie Judith.
Barbablù giunge al castello, immerso nell’oscurità, con la nuova moglie alla quale offre, in un primo momento, la possibilità di andare via. La donna, però, è decisa a rimanere chiedendogli con insistenza di aprire le porte chiuse in modo che la luce possa illuminare l’interno. Barbablù rifiuta ma la donna, con le sue pressanti richieste, riesce a prevalere. All’apertura della prima porta si rivela agli occhi di Judith la camera della tortura con delle macchie di sangue mentre la seconda camera è un deposito di armi e la terza contiene molte ricchezze. Spinta da Barbablù, la donna scopre, dietro la quarta porta, un bellissimo giardino e dietro la quinta una finestra che si affaccia sul vasto regno di Barbablù, ma alla luce del sole vede che tutto è macchiato di sangue. A questo punto Barbablù la prega di non continuare nella sua esplorazione ma Judith è irremovibile e apre la sesta porta dietro la quale scopre un lago d’argento che corrisponde ad un lago di lacrime e, infine, ignorando le suppliche di Barbablù, apre anche la settima porta. Judith, che accusa, infatti, l’uomo di avere ucciso le mogli precedenti delle quali ha visto il sangue e le lacrime, è sicura che dietro la settima porta ci sono i loro corpi. In effetti in quella camera ci sono tre mogli di Barbablù ancora vive e ornate di gioielli e, quando queste appaioni in silenzio, l’uomo, assalito dall’emozione, si inginocchia davanti a loro tessendone le loro lodi. Le chiama, infatti, «la moglie dell’alba, del mezzogiorno e del tramonto». Infine, rivolgendosi a Judith, la chiama «la moglie della notte. La donna è, però, terrorizzata e lo prega di smettere ma egli la copre di gioielli e la chiude insieme alle altre nella settima camera rimanendo solo mentre il castello piomba nell’oscurità.
In quest’opera, come nella maggior parte della produzione di Bartók, si può notare l’adozione da parte del compositore del cosiddetto sistema assiale che costituisce la base della sua organizzazione armonica ed è stato illustrato in un importante saggio di Ernö Lendvai, apparso in Italia sulla «Rivista Musicale Italiana» nel 1982 con il titolo La sezione aurea nelle strutture musicali bartokiane dove vengono analizzati i principi armonici e formali che presiedono alla composizione della musica del compositore ungherese. Il sistema assiale è derivato dall’armonia funzionale, in quanto i suoni e le tonalità vengono inseriti in un contesto più ampio che li riconduce alla tonica, alla dominante e alla sottodominante; se, per esempio, partendo dalla tonalità di do maggiore, procediamo, attribuendo a do la funzione di tonica, a sol quella di dominante e a fa quella di sottodimante, vedremo che queste funzioni possono essere messe in relazione anche con quelle del relativo minore, per cui il la, tonica del relativo, diventerà tonica parallela nella tonalità maggiore, il re, sottodominante del relativo, sarà sottodominante parallela, mentre mi, dominante di la minore, diventerà dominante parallela di do maggiore. Da ciò si ottiene una serie fa-do-sol-re-la-mi che ripete per due volte le funzioni sottodominante-tonica-dominante e che, se viene applicata a tutto il circolo delle quinte, ci permette di estenderla a tutte le tonalità.
L’opera si svolge, infatti, nell’intero asse della tonica dal momento che parte, dal punto di vista armonico, in fa diesis, trattato in modo modale per raggiungere il do nella parte centrale, prima di tornare, descrivendo un ponte a livello macroformale, al fa diesis nel finale che, secondo alcuni critici, rappresenta le temebre in contrapposizione alla luce (do). All’interno di questa macrostruttura modale, possiamo trovare passi che adottano un linguaggio armonico politonale, mentre in altri come, ad esempio in occasione dell’apertuta della terza porta, tonale.