“Cavalleria Rusticana” alle Terme di Caracalla

Teatro dell’Opera di Roma, Terme di Caracalla, Stagione estiva 2013
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Opera  in atto unico
Libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
Tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza ANNA PIROZZI
Lola ANNALISA STROPPA
Turiddu KAMEN CHANEV
Alfio CLAUDIO SGURA
Mamma Lucia ELENA ZILIO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Gaetano D’Espinosa
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia,scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Vincenzo Raponi
Movimenti mimici Silvia Casadio
Roma, 4 luglio 2013
L’instabilità atmosferica del cielo di Roma ha creato una serata a dir poco movimentata alle Terme di Caracalla, dove il violento acquazzone prima dello spettacolo ha reso necessario lo spostamento dell’orario di inizio, poi l’inversione tra i due titoli in programma, l’opera “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni e il balletto “Terra e cielo”, su musiche di Nino Rota, con la coreografia di Micha van Hoecke e infine la soppressione di quest’ultimo, vista  l’impossibilità per i ballerini di danzare su una superficie scivolosa. Alla fine quindi è andato in scena solo il capolavoro di Mascagni, di cui quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita. Il nuovo allestimento, creato da Pier Luigi Pizzi, sposta la vicenda in avanti nel tempo, durante il periodo fascista. Se l’idea di modificare l’ambientazione di un’opera, ormai non è nuova, in questo caso è apparsa un’operazione piuttosto gratuita. Pier Luigi Pizzi, da grande scenografo qual è, ha ricostruito una abitazione siciliana, di un bianco accecante, con un patio e una terrazza soprastante, tipica di un certo immaginario della Sicilia come potrebbe essere anche quella de “Il gattopardo” cui è ispirato il balletto che avrebbe dovuto essere rappresentato insieme all’opera. Ma se la bellezza della scena può conquistare l’occhio dello spettatore, una regia praticamente inesistente, porta inevitabilmente a rendere uno spettacolo di richiamo quale “Cavalleria rusticana” ad un mero esercizio di convenzionalità teatrale, lasciando agli interpreti la possibilità di adattarlo alla propria fisicità. Così solo Santuzza e mamma Lucia sono state in grado di fornire una interpretazione sulla scena consona ai propri personaggi, mentre per gli altri come per il coro, è stato offerto un campionario dei soliti clichè operistici con gestualità francamente stereotipata. E quindi i momenti forse più interessanti della regia sono stati l’introduzione, in cui una Santuzza disperata si aggira sulla scena, salendo e scendendo dalle scale come se volesse cogliere in flagrante, spiando nella casa di Mamma Lucia, l’amplesso tra Turiddu e Lola. Così tutti i momenti in cui è presente Santuzza, pur nella classica convenzionalità, sono risolti in maniera egregia; anche la figura di Mamma Lucia, qui una proprietaria di “casa chiusa” piuttosto che di un’osteria, è comunque risultata valorizzata, accentuando quei tratti di falsità del personaggio che incontra anche il vescovo della città, servito a tavola da ragazze compiacenti. Per il resto momenti colorati ma niente più: il coro schierato sulla terrazza rappresentato da signore bene della borghesia siciliana e da giovani camerati e uomini vestiti di bianco,  è stato praticamente fisso sulla scena, senza alcuna partecipazione emotiva durante “Gli aranci olezzano”; e ancora più priva di qualunque spessore la scena della processione di Pasqua. È vero che Pizzi, nelle note di regia ha voluto evidenziare che la processione, come si vede in genere nelle rappresentazioni dell’opera, è propria del Venerdì santo e non della mattina di Pasqua, ma realizzarla nel modo che ci è stato proposto è veramente un colpo alla profonda teatralità del momento. Priva completamente di tutta la poesia questo coro schierato sulla terrazza che assiste all’incontro tra il vescovo e i notabili del paese, mentre risuonano le splendide melodie di “Inneggiamo al Signor”. Anche il finale è stato un esempio di assoluta mancanza di teatralità in un’opera che ne trabocca in maniera straordinaria. Peccato, dato che la trasposizione temporale avrebbe potuto offrire spunti registici più coerenti con una messa in scena che avrebbe potuto guardare a certi film di  Giuseppe Tornatore.
Dal punto di vista musicale, come al solito, l’effetto dell’amplificazione rende parzialmente giudicabile la prestazione dell’Orchestra, diretta dal maestro Gaetano D’Espinosa.  Il giovane maestro siciliano ha  guidato con correttezza lineare la compagine dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, con attacchi precisi, notevole afflato lirico, con momenti di particolare intensità come nell’accompagnamento struggente di “Voi lo sapete, o mamma”. Peccato quella interruzione, probabilmente per motivi tecnici, che ha fatto da brusca cesura tra il drammatico finale del duetto Santuzza Alfio e l’intermezzo, realizzato poi in modo abbastanza suggestivo. Anche nei momenti più drammatici, la direzione si è mostrata piuttosto efficace, con forse qualche eccessiva secchezza nel finale dell’opera, dove uno strano e amplificato “hanno ammazzato compare Turiddu”  ha chiuso la serata. Buona la prestazione del coro, guidato dal maestro Roberto Gabbiani.
Tra i cantanti la prestazione di gran lunga migliore è stata offerta dalla protagonista Santuzza, interpretata dal giovane soprano Anna Pirozzi. La cantante, con il suo timbro scuro, lirico drammatico, ha creato un personaggio a tutto tondo, con sfumature diverse per i momenti più dolenti di intimo raccoglimento, come nella splendida esecuzione di “Voi lo sapete, o mamma” dove profonda angoscia viene espressa in quella straziante salita vocale al “l’amai”, così toccante da farci avvertire lo strazio del suo amore carnale per Turiddu. Così come molto suggestivo è stato il duetto iniziale con mamma Lucia dove la voce della cantante si è piegata ad assottigliamenti molto particolari in quel “mamma Lucia vi supplico piangendo”, reso con straordinaria efficacia. Molto brava poi nel tenere testa a Turiddu e quindi vendicativa e poi addolorata nel duetto con Alfio con uno splendido “Turiddu mi tolse l’onore”. Tutto ciò aggiunto ad una notevole padronanza scenica che le ha permesso di realizzare una Santuzza molto credibile. Purtroppo il suo efficace agire sulla scena è stato compromesso da un Turiddu ai limiti dell’ascoltabile. Il tenore bulgaro Kamen Chanev, già pessimo Foresto nella scorsa edizione dell’”Attila” alle Terme di Caracalla, ha riproposto in questo ruolo prototipo del Verismo, i più biechi effettacci di cantante “da arena”: timbro nasaleggiante, emissione ingolata, intonazione oscillante, difetti di legato e fraseggio a dir poco generico, hanno praticamente massacrato la parte di Turiddu, rovinando in particolare il duetto con Santuzza, ma anche l’inciso finale con Alfio. Leggermente più efficace l’addio alla madre, anche se il finale è apparso stentoreo. Tutto aggiunto a una capacità scenica praticamente nulla, che mostrava sulla scena un goffo personaggio, di cui non si capisce quale sia la particolare attrattiva per le donne del paese. Sicuramente meglio il compar Alfio di Claudio Sgura, che pure in un’interpretazione forse un po’ sopra le righe, ha offerto comunque una valida raffigurazione del personaggio, anche se fuori luogo come gerarca fascista. Annalisa Stroppa, dotata di un timbro grazioso e fasciata da un vestito aderentissimo, ha riproposto il clichè della donna sempre ancheggiante, forse vagamente ispirata alla Monica Bellucci del film di Tornatore, in grado di suscitare gli sguardi concupiscenti degli uomini. Infine la Mamma Lucia di Elena Zilio: la cantante, grande esperta del ruolo, ha realizzato scenicamente un grande personaggio, mobile, capace di seguire con gli sguardi tutto ciò che avviene dentro e fuori della sua casa, si fa persino sollevare da un atletico compar Alfio e reagisce da vera coprotagonista ai tormenti di Santuzza. Peccato che da un punto di vista vocale sia apparsa usurata, con frequenti sconfinamenti nel parlato con effetti un po’ sgradevoli all’ascolto.
Alla fine della serata applausi di cortesia del pubblico eterogeneo di Caracalla, in un teatro parzialmente vuoto, per gli effetti dell’acquazzone, e disorientato per la tardiva comunicazione della soppressione del balletto. Foto Luciano Romano