Cecilia Bartoli: St.Petersburg

Francesco Domenico Araia: “Vado a morir” (“La forza dell’amore e dell’odio”); Hermann Raupach: “Razverzi pyos gortani, laya”, “Idu na smert” (“Altsesta”); “O placido il mare” (“Siroe, re di Persia”); Domenico Dall’Oglio e Luigi Madonis: “De’ miei figli” (prologo a “La clemenza di Tito” di Johann Adolf Hasse); Vincenzo Manfredini: “Fra’ lacci tu mi credi” (“Carlo Magno”); Francesco Domenico Araia: “Pastor che a notte ombrosa” (“Seleuco”); Hermann Raupach: Marcia (“Altsesta”); Vincenzo Manfredini: “Non turbar que’ vaghi rai” (“Carlo Magno”); Domenico Cimarosa: “Agitata in tante pene” (“La vergine del sole”); Vincenzo Manfredini: “A noi vivi, donna eccelsa” (“Carlo Magno”)*. Cecilia Bartoli (mezzosoprano); Silvana Bazzoni* (soprano).I Barocchisti, Coro della RSI Radiotelevisione Svizzera; Diego Fasolis (direttore). Registrazione: Lugano, dicembre 2013, febbraio e aprile 2014. T. Time 1h17’57’’. 1 CD Decca 478 6767
Ogni disco di Cecilia Bartoli è un evento.
Punto. Piaccia o non piaccia. Certi vezzi sono diventati un suo infallibile marchio di fabbrica. Eppure St Petersburg, la sua ultima fatica discografica, presenta qualche piccola novità.
Ancora un recital dal sapore di riscoperta: 11 tracce, tutte in prima registrazione assoluta. S’indaga qui l’innesto dell’opera italiana nella Russia del Settecento, promosso da tre zarine illuminate (Anna, Elisabetta e la celeberrima Caterina) nell’ambito di un lucido progetto d’apertura alla cultura occidentale. La silloge dei brani, ripescati nello sterminato archivio di manoscritti musicali del Teatro Mariinskij, è tutta dedicata al repertorio serio. Al bando dunque Ristori, Sarti e Paisiello (più attivi sul versante comico, almeno nella terra degli zar) e porte aperte a compositori poco o per nulla noti, come il napoletano Francesco Domenico Araia, il tedesco Hermann Raupach, i veneti Domenico Dall’Oglio e Luigi Madonis, il pistoiese Vincenzo Manfredini; unica star, Domenico Cimarosa. Autori di opere in stile italiano, scritte per maestranze italiane, su libretti italiani e non solo: a fianco di Metastasio ed emuli, sbuca Aleksandr Sumarokov, fra i massimi poeti e drammaturghi russi, che su invito della zarina Elisabetta versificò alcuni drammi per musica. E questo dà a Cecilia la possibilità di cantare per la prima volta nella lingua di Puškin.
La voce della Bartoli è quella che già conosciamo. Il timbro è sempre brunito (roco, diranno alcuni) nei centri e nei gravi, certi acuti restano sbiancati e permane la tendenza a stimbrare le sillabe finali. Ma molti eccessi stilistici sono qui attenuati (non siete convinti? Riascoltate Sacrificium o il più recente Mission). Prendiamo la prima traccia, “Vado a morir” da La forza dell’amore e dell’odio di Araia. Parrebbe terreno perfetto per l’enfasi tutta a fior di microfono a cui ci ha abituato la nostra. Invece la languorosa siciliana fluisce senza traccia di quella sua tendenza a voler troppo dire e troppo fare. Parche di manierismi anche altre arie contemplative, come “Idu na smert” dall’Altsesta di Raupach o “Pastor che a notte ombrosa” dal Seleuco di Araia, brani in cui la Bartoli sfoggia una compostezza inedita, almeno per i suoi standard.
Non mancano le occasioni per dimostrare l’indiscutibile controllo delle agilità: è sufficiente ascoltare “Razverzi pyos gortani, laya”, furoreggiante sfogo di Ercole ancora dall’Altsesta, o l’aria “O placido il mare” dal Siroe di Raupach. Qua e là s’avverte qualche nota gutturale, ma l’esasperazione del contrasto fra registri non è accentuata come altrove.
Resta poi mirabile nella Bartoli la capacità di modulare peso e colore della voce, dote che le permette di essere credibile nella tessitura più grave di “Fra’ lacci tuoi mi credi”, l’aria di Desiderio dal Carlo Magno di Manfredini, come nelle colorature di “Non turbar que’ vaghi rai”, aria di Carlo dalla stessa opera.
Merito della felice riuscita del disco va anche agli splendidi Barocchisti guidati da Diego Fasolis. Energici senza isterismi, sfoggiano solide prime parti, soprattutto fra i fiati: come non menzionare Corrado Giuffredi, clarinetto solista nell’aria “Agitata in tante pene” da La vergine del sole di Cimarosa, o Marco Brolli, che regala il suono timbratissimo del suo flauto a “De’ miei figli” di Dall’Oglio/Madonis? Senza contare trombe e corni, impeccabili in certe note acute davvero impervie e in altri passaggi di scatenato virtuosismo.
Chiude il disco il coro “A noi vivi, donna eccelsa”, altro brano dal Carlo Magno: momento di gloria dell’ottimo Coro della RSI Radiotelevisione svizzera e occasione per ascoltare la Bartoli duettare con la madre Silvana Bazzoni.
Trattandosi di un disco di Cecilia Bartoli, si nutre qualche aspettativa anche sulla veste editoriale. Sulla copertina del cofanetto (brossurato come di consueto), Cecilia veste colbacco e pelliccia di ermellino: zarina in technicolor, luminosa e patinata quasi fosse uscita dal Dottor Zivago. Nell’ampio libretto trovano posto tre saggi, una succinta cronologia del Settecento russo e uno schema che illustra verità e menzogne sulla vita di Caterina la Grande. Fra le tante immagini, spicca la foto di un tavolino di foggia assai equivoca, forse mobilio del leggendario gabinetto erotico di Caterina. Qualche scivolone nel trash che però non inficia il giudizio finale: siamo di fronte ad una delle pubblicazioni più convincenti dell’ultimo periodo bartoliano.