“Götterdämmerung” al Gran Teatre del Liceu di Barcelona

Iréne Theorin e Lance Ryan

Barcelona, Gran Teatre del Liceu – Temporada 2015/2016
“GÖTTERDÄMMERUNG”
Terza giornata, in un prologo e tre atti, della Tetralogia Der Ring des Nibelungen
Libretto e Musica di Richard Wagner
Siegfried  LANCE RYAN
Gunther  SAMUEL YOUN
Hagen  HANS-PETER KÖNIG
Alberich  OSKAR HILLEBRANDT
Brünnhilde  IRÉNE THEORIN
Gutrune  JACQUELYN WAGNER
Waltraute  MICHAELA SCHUSTER
Prima Norma  CRISTINA FAUS
Seconda Norna  PILAR VÁZQUEZ
Terza Norna  JACQUELYN WAGNER
Woglinde  ISABELLA GAUDÍ
Wellgunde  ANN ALÀS I JOVÉ
Flosshilde  MARINA PINCHUK
Orquestra Simfònica i Cor del Gran Teatre del Liceu
Direttore Josep Pons
Maestro del Coro Conxita Garcia
Regia Robert Carsen
Scene e costumi Patrick Kinmonth
Luci Manfred Voss
Produzione Bühnen der Stadt Köln
Barcelona, 19 marzo 2016

Der Ring des Nibelung del Liceu di Barcelona, diretto da Josep Pons e con la regia di Robert Carsen, si conclude con un’apoteosica  Götterdämmerung; le sei recite sono tutte dedicate alla memoria di Oleg Bryjak e Maria Radner, rispettivamente interpreti di Alberich e di Erda nel Siegfried della scorsa stagione, e subito dopo vittime nel disastro aereo Germanwings del marzo 2015. L’attuale cronaca riguarda uno spettacolo di alto livello e di clamoroso successo; la qualità si misura prima di tutto in termini musicali, perché orchestra, voci soliste, coro, sono tutti professionisti dell’esecuzione wagneriana; l’allestimento, inoltre, è quello più che collaudato di Colonia, a firma di un Carsen non particolarmente innovativo ma sicuramente preciso e coerente, tale da piacere a tutto il pubblico catalano.
La conduzione di Pons, che del Liceu è direttore musicale, si profila senz’altro molto accurata, e vanta un comparto di ottoni solidissimo nell’orchestra: anzi, è appunto questo il suo nerbo, quello che determina le sonorità dominanti. Il direttore decide di staccare tempi sempre piuttosto rapidi, in modo da permettere un fluire dell’azione privo di qualsivoglia compiacimento: tutto il suo Ring, e in particolare la Götterdämmerung, è completamente anti-retorico, abbinandosi molto bene con le scelte registiche di Carsen. Anche i momenti musicalmente più grevi della partitura (scene corali del II atto) sono resi con un taglio di sonorità espressionistiche, senza alcuna esaltazione trionfale del dettato wagneriano. Siccome Pons resiste alla tentazione analitica che l’intreccio e la composizione dei vari temi offrono nel corso di tutta l’opera, il suono della sua orchestra si mantiene sempre omogeneo, coeso, privo di esagerato fragore così come di ricercati pianissimo. Tale asciuttezza stilistica individua bene il carattere principale del Crepuscolo, ossia «l’equivalente musicale della inesorabile disgregazione alla quale sono condotti gli elementi del dramma», come ha scritto molti anni fa Teodoro Celli in sintesi perfetta.
Questa Götterdämmerung di Barcelona, comunque, sarà senza dubbio ricordata come apoteosi di Iréne Theorin, subentrata a Catherine Foster che aveva cantato lo scorso anno nel ruolo protagonista di Die Walküre; il trionfo si registra non solo perché alla fine della recita piovono dal loggione centinaia di biglietti colorati che proclamano il soprano svedese come «the new Wagnerian queen of Liceu», ma perché davvero la sua interpretazione di Brünnhilde è a tutti gli effetti straordinaria. La Theorin appare molto cresciuta e maturata sul piano propriamente vocale, di emissione del fiato e di capacità tecniche, rispetto alle recite milanesi del maggio e luglio 2013, in cui aveva già fornito una prova convincente. Adesso l’emissione è forte e omogenea, gli acuti squillanti, perfettamente intonati, sicuri al pari della recitazione, che s’impone per naturalezza e capacità persuasiva, priva di forzature o di esagerazioni filodrammatiche. La prestazione è strepitosa nel II atto, il tempo della sofferenza angosciosa e della denuncia del tradimento; ma diventa un capolavoro nel III, con la scena del sacrificio finale, affrontato senza la più piccola esitazione o il minimo cedimento vocale.
La voce di Lance Ryan è, invece, sempre la stessa: intonata ma goffa, abbastanza potente ma priva di squillo, e soprattutto mancante di proiezione nello spazio enorme del Liceu. Rispetto al passato si può soltanto dire che il regista (o meglio, il suo sostituto presso il teatro catalano, Oliver Klöter) abbia vigilato molto sulla recitazione, per evitare le solite cadute di stile nei momenti più delicati dello sviluppo teatrale. Certo, va detto che il Siegfried immaginato da Carsen resta comunque un buzzurro indisciplinato, un soldataccio di bassa lega, che gode a raccontare le proprie spacconate (e in questo l’allure di Ryan riesce del tutto idonea).
Il veterano e carismatico Hans-Peter König rende molto bene il ruolo di Hagen; certo, alcune note sono tenute con un’emissione un po’ troppo fissa, alcuni acuti non sono più ben sostenuti, ma l’immedesimazione nel personaggio è totale, e si percepisce la grande classe del frequentatore wagneriano di lungo corso. Anche se la sua voce non brilla per alcun carattere particolare, il Gunther di Samuel Youn è molto corretto, e acquista scioltezza con il progredire della recita; pur con un volume notevole, la resa vocale è inferiore all’impegno per i pochi armonici e l’assenza di colori. Michaela Schuster interpreta una Waltraute efficace, sebbene il suo registro non sia del tutto uniforme: qualche difficoltà di emissione è sempre procurata dalle note basse. Jacquelyn Wagner dà voce sia alla terza Norna sia a Gutrune: è corretta, anche se gli acuti risuonano un po’ esili e non molto espressivi. Alberich, nell’unica scena in cui appare (II i) è interpretato dalla voce un po’ troppo chiara e leggera di Oskar Hillebrandt. Ottimo il Cor maschile del Teatre del Liceu, preparato da Conxita Garcia.
L’impianto registico è molto chiaro nella comunicazione, coerente rispetto alle giornate che precedono il Crepuscolo, anche se non del tutto convincente; Carsen traspone infatti il mondo dei Ghibicunghi in una dittatura militare, con Gunther debole tirannello in balìa delle trame di Hagen. Il coro stesso è interamente formato da militari, e anche l’estraneo Siegfried si trasforma ben presto in un commilitone, pur conservando un’originaria ribellione nei confronti dell’autorità in generale. Tutto il resto del mondo, al di fuori dell’ordine violento e perverso imposto dalla dittatura, è ammasso caotico e abbandonato a se stesso, come lo scenario di una guerra appena perduta. Le tre Norme esauriscono la loro capacità divinatoria dentro una soffitta stipata di mobili e suppellettili in disuso, tutte imbragate da funi e gomene (il coriaceo eppure fragile filo del destino), mentre la montagna di Brünnhilde è un campo di battaglia cosparso di relitti bellici: elmi, cartuccere, frammenti di armi. Carsen ha cura di variare la scena in corrispondenza di ogni nuovo quadro, ma questo non impedisce che lo spettacolo soffra comunque di una certa staticità; tra uno scenario e l’altro scende infatti il sipario, per dare tempo al personale tecnico di effettuare il cambio. In tal modo lo spettatore si concentra meglio sugli interludi sinfonici, ma il divenire drammatico della parte visiva ne esce un poco rattrappito. Come sempre accade negli spettacoli di Carsen, la messa in scena è ricca di valori formali, simbolici e allusivi; per esempio nel “ciarpame reietto” della soffitta delle Norne viene scostato un telo che ricopre il tronco del frassino del mondo, appena evocato dalle profetesse; nella reggia dei Ghibicunghi, tra grandi carte geografiche militari e librerie bene ordinate troneggia la scrivania del dittatore, su cui trovano spazio anche le fotografie dei famigliari di Gunther; nel II atto Hagen chiama a raccolta i Ghibicunghi a festeggiare le nozze del capo utilizzando un telefono; il coro di militari sbandiera il rosso vessillo della dittatura, facendolo roteare in modo smaccatamente propagandistico (con allusione alla natura corrotta e servile dell’intero popolo); nella densa caligine che apre il III atto le tre figlie del Reno appaiono come discinte e leziose passeggiatrici; e la riva del Reno è l’antica sponda presso la quale vivevano accampati Mime e lo stesso Siegfried, che ritrova in una vasca da bagno abbandonata l’orsacchiotto di quando era un bambino inquieto e sognatore …
Una buona idea teatrale non sempre rende un buon servizio alla resa musicale: l’alternanza di spazi pieni e spazi vuoti ricercata da Carsen fa sì che la montagna di Brünnhilde sia una spianata del tutto deserta, che si estende nel retro-palcoscenico fino alle pareti di fondo del teatro; ma la voce di Ryan (non quella della Theorin) si disperde in tale immensità prima di arrivare alla sala. E altra scelta discutibile, a ulteriore discapito della resa vocale del personaggio protagonista maschile, è quella di far cantare Siegfried dietro le quinte, mentre l’interprete di Gunther soggioga Brünnhilde e le strappa l’anello nel quadro finale del I atto: questo fa sì che la voce del tenore si senta poco, e obbliga lo spettatore a vedere il baritono che finge di cantare, con effetto alquanto ridicolo. Se finora si è parlato di scelte discutibili, l’impostazione del finale costituisce un vero e proprio errore, perché il grande sacrificio di Brünnhilde si consuma nella solitudine della donna sulla scena, come se si trattasse di un fatto individualistico, e non del momento più pubblico e davvero “politico” di tutta quanta la saga. È solo in seguito al coinvolgimento di tutti nella complicata scena finale (antagonisti, uomini e dèi) che può nascere un’umanità nuova, purificata dalla serie di tradimenti e ingiustizie che si erano susseguiti in precedenza. Ma se Brünnhilde canta completamente sola, immersa in una spessa cortina di fumi e di luce azzurra nella quale alla fine scompare trasfigurata, lo spettatore non può certo comprendere il processo di redenzione universale innescato dalla sua immolazione (quello che in termini musicali è offerto dalla ricomparsa finale del tema della “Redenzione d’amore”, occorso per la prima volta nel III atto di Die Walküre e non più ripreso); non si vede neppure Hagen, il cui ultimo anelito alla conquista dell’anello si ascolta provenire da fuori scena. Eppure le indicazioni d’autore erano chiare ed esplicite, come ha notato Mario Bortolotto, interrogandosi sul messaggio finale dell’opera: «L’ultima annotazione è al riguardo misteriosa e illuminante facendo scorgere la sala del Walhall dove gli dèi e gli eroi siedono in assemblea, e chiare fiamme sembrano prorompere. Quale sarà il futuro del mondo (non) liberato?». Nell’Europa di questi giorni, insanguinata da fuochi e da lutti tutt’altro che liberatori, le ambizioni rigeneratrici di Wagner fanno riflettere con più urgenza che mai.   Foto Antoni Bofill © Gran Teatre del Liceu