“I Capuleti e i Montecchi” al Teatro La Fenice di Venezia

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2014-2015
I CAPULETI E I MONTECCHI”
Tragedia Lirica in due atti, Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Capellio RUBÉN AMORETTI
Giulietta
JESSICA PRATT
Romeo
SONIA GANASSI
Tebaldo
SHALVA MUKERIA
Lorenzo
LUCA DALL’AMICO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Maria Carla Ricotti
Light designer Fabio Barettin
Venezia, 14 gennaio 2015
11 marzo 1830, va in scena alla Fenice l’opera nuova, scritta da Bellini, in poco più di un mese, per il Carnevale: I Capuleti e i Montecchi, con il ruolo di Romeo en travesti. Un mutamento di gusto si era, nel frattempo, fatto strada nel corso dei decenni iniziali del secolo diciannovesimo, cosicché a partire dagli anni Trenta i castrati erano praticamente scomparsi dalle scene operistiche, e lo stesso ruolo en travesti cominciava ad apparire – in base ad istanze di realismo, forse in tantino discutibili nell’ambito del melodramma – anacronistico, salvo mantenerlo in vita per esprimere i primi turbamenti amorosi di un giovinetto (sull’esempio del Cherubino mozartiano) o comunque dar voce ad un ragazzo molto giovane. A tal proposito, il 1830 può essere considerato l’anno di transizione: Velluti, l’ultimo grande castrato lascia le scene, e contemporaneamente Donizetti, nella sua Anna Bolena, affida ad una voce femminile la parte del giovane paggio Smeton, influenzando la produzione futura (vedi Un ballo in maschera). Sempre nel 1830 Bellini fa rappresentare a Venezia I Capuleti e i Montecchi, assegnando il ruolo di Romeo a Giuditta Grisi, ma la cosa non passò inosservata. Hector Berlioz, dopo aver assistito l’anno successivo ad una recita dell’opera belliniana al Teatro Alla Pergola di Firenze, si indignò per il fatto che, dopo Zingarelli et Vaccaï, anche il Catanese avesse concepito un amante di Giulietta privo degli attributi virili, facendosi, comunque, sedurre, anche lui, dal finale dell’atto primo, formato da un canone a cinque voci e una cabaletta, cantata all’unisono dai due innamorati, con accompagnamento del coro e delle altre parti: sul cupo universo degli adulti (tenori e bassi) si stagliano le loro voci acute, luminose d’amore. Si tratta del sentimento ancora avvolto nel sogno di due adolescenti, che stanno maturando la loro identità sessuale. Il che forse – con tutto il rispetto per un gigante della musica – era sfuggito a Berlioz, e rende la scelta di Bellini tutt’altro che convenzionale.
Controversa fu, dunque, in passato la fortuna de I Capuleti e i Montecchi: un’opera da sempre amata dal pubblico, che ha fatto nello stesso tempo arricciare il naso a più di qualche critico, anche a Liszt e a Wagner, che in particolare trovò la sua musica “insignificante”, peraltro apprezzando poco dopo Norma, che dirigerà egli stesso più volte. Un’opera dalla genesi travagliata, per la cui composizione l’autore attinse a piene mani – pur sottoponendo il materiale musicale ad un’attenta rielaborazione – a motivi della Zaira, composta l’anno precedente e segnata da un fiasco senza appello; la romanza di Giulietta “Oh! quante volte, oh quante!”, il brano più famoso dell’opera, fu, invece, ricavata dall’Adelson e Salvini. Del resto anche il libretto, confezionato dall’esperto Felice Romani, non era stato scritto di prima mano, derivando in parte da quello che egli stesso aveva composto per Nicola Vaccaï: le fonti, cui attinge il poeta – pur conoscendo certamente il testo di Shakespeare –, sono italiane – come la novella di Matteo Bandello e la tragedia di Luigi Scevola – e francesi – in particolare, il rifacimento del testo shakespeariano ad opera di Jean-François Ducis. A tante complicazioni pone rimedio – è quasi inutile sottolinearlo – la musica di Bellini, caratterizzata, principalmente, dalla purezza delle melodie, ma anche dalla presenza di un declamato tutt’altro che di maniera, bensì di intensa, musicalissima espressività. E ancora il genio belliniano colma una lacuna del libretto del Romani, in cui l’elemento lirico – che Shakespeare esprime in pagine di straordinaria poesia – viene sacrificato a favore di quello drammatico: la sua musica svela ciò che la parola nasconde.
Grande attesa – almeno personalmente – per quanto riguarda l’interpretazione che, dell’opera, avrebbe offerto il giovane maestro Omer Meir Wellber, che già abbiamo potuto apprezzare a Venezia nel repertorio sinfonico. “Il forte in Bellini non è quello che si esegue in Verdi”, si può affermare, parafrasando le parole di Gianandrea Gavazzeni, che qualcosa ne sapeva di opera italiana. Ma ai giovani, come si sa, piace a volte trasgredire gli insegnamenti dei padri, e in effetti il maestro israeliano ha impresso all’esecuzione, fin dalla Sinfonia, un piglio in larga parte travolgente, imponendo ritmi incalzanti e potenti sonorità, cui non eravamo abituati in riferimento all’autore catanese. Si tratta di una lettura diversa, ma non per questo priva di coerenza ed efficacia espressiva, che ha il merito di irrorare di nuova linfa una partitura, che potrebbe risentire negativamente – al di là delle bellezze melodiche – di una certa staticità formale, che la percorre. Perfetta inoltre l’intesa tra l’ottima orchestra della Fenice – dove si sono messi in luce, in talune pagine orchestrali, il corno il flauto, il clarinetto, oltre al violoncello – e gli altrettanto validi cantanti; il che si è apprezzato in particolare nelle scene d’insieme, dove spiccava, tra l’altro, l’ineccepibile dizione del coro. Ne è risultata un’esecuzione – al di là delle scelte interpretative, che possono piacere o meno – precisa ed attenta alle esigenze del canto, che ha visto il maestro Meir Wellber dominare con gesto ampio e sicuro di fronte ad ogni situazione scenica, ad ogni particolare della partitura, sorretto da un Cast quantomeno di grande professionalità, in cui spiccavano le due protagoniste, che hanno esibito un fraseggio chiaro ed espressivo nelle arie come nel declamato cantabile, che percorre tutta l’opera. Jessica Pratt – già fattasi apprezzare dal pubblico veneziano in precedenti stagioni: nell’Africana (2013) e nella Sonnambula (2012) – ha delineato una Giulietta di volta in volta languida ed appassionata, ingenua e decisa, sfoggiando un bel legato, oltre alla capacità di di padroneggiare i propri mezzi vocali con esiti espressivi di grande suggestione, cui contribuivano anche i passaggi di coloratura, che assumono – come sempre in Bellini – una funzione tutt’altro che meramente decorativa. La cantante australiana ha confermato una voce chiara e omogenea, brillante nell’acuto, particolarmente adatta alla parte di Giulietta come, in genere, al repertorio per soprano lirico, segnalandosi in “Oh! quante volte, oh quante!”.
Le è stata degna compagna sulla scena Sonia Ganassi, che ha forse un tantino esagerato nel voler imprimere al personaggio un carattere virile, che – come si è notato in precedenza – non è del tutto formato in un ragazzo così giovane, qual è Romeo. In ogni caso la sua interpretazione – dopo una partenza non troppo felice per un andamento vagamente spigoloso della sua vocalità – si è via via dipanata con sempre maggiore fluidità, aderendo con efficacia interpretativa alle istanze della sua parte, oltre a segnalarsi per il fraseggio scolpito e il buon controllo della voce, in particolare negli ariosi e nei recitativi accompagnati. Irresistibili le due interpreti nel già citato finale primo (“Se ogni speme è a noi rapita”). Buona la prestazione di Shalva Mukeria come Tebaldo: il tenore georgiano ha affrontato con sicurezza le asperità della sua parte, fin dall’iniziale “È serbata a questo acciaro”, per quanto penalizzato da un timbro vocale un po’ scialbo. Terribile e spietato, animato da un odio inestinguibile, il Capellio di Rubén Amoretti, che ha esibito una voce di basso profonda, ricca di armonici gravi, adatta al carattere del personaggio, cui ha tuttavia aggiunto qualche eccesso mefistofelico. Anche l’altro basso, Luca Dall’Amico nei panni del paterno Lorenzo, si è dimostrato all’altezza della situazione, modulando con professionalità la sua voce particolarmente timbrata. Che dire – a conclusione – della messinscena di Arnaud Bernad? Del fatto che l’azione si svolge in un palazzo antico, in cui si sta allestendo una galleria di quadri, nel quale compaiono a tratti operai con tanto di elmetto rosso, un’alta scala ed enormi tele? Che in queste tele sono raffigurati gli stessi personaggi del dramma? Che a un certo punto si vede anche eseguire una saldatura autogena? Che Giulietta canta la sua aria più famosa nei pressi di una a vasca da bagno per poi rivestirsi dietro un lenzuolo tenuto steso dalle cameriere? Credo che ci avvarremo della facoltà di non rispondere, per non confessare la nostra incapacità di comprendere il senso di questa operazione. Peccato, perché le scene erano di buon gusto come i costumi di vaga foggia rinascimentale: splendido, in particolare, l’abito bianco ricamato di Giulietta. Successo, comunque, vivissimo alla fine con ovazioni riservate alle due protagoniste, nonché al direttore d’orchestra e a quello del coro.