“I Puritani” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“I PURITANI”
Melodramma serio in tre atti su libretto di Carlo Pepoli
Musica Vincenzo Bellini
Lord Gualtiero Valton  MIKLÓS SEBESTYÉN
Sir Giorgio  NICOLAS TESTÉ
Lord Arturo Talbo  JAVIER CAMARENA
Sir Riccardo Forth  LUDOVIC TÉZIER
Sir Bruno Robertson  ANTONIO LOZANO
Enrichetta di Francia  ANNALISA STROPPA
Lady Elvira Valton  VENERA GIMADIEVA
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Evelino Pidò
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Peppispoo
Luci Eduardo Bravo
Nuova produzione del Teatro Real in coproduzione con il Teatro Municipal de Santiago de Chile
Madrid, 11 luglio 2016

«Quaggiù, nel mal che questa valle serra» è un bell’endecasillabo di Carlo Pepoli inserito nel II atto dei Puritani. Lo canta Riccardo, l’amante deluso, il colonnello frustrato anche nel desiderio di vendetta, cui il poeta non riserva alcuna parte nel finale che troppo repentinamente capovolge la situazione, secondo i meccanismi della pièce à sauvetage. Riccardo è il perdente dell’opera (sorte tipica del baritono), ma forse è anche il tipo caratteriale in cui lo spettatore razionalista di oggi più si può riconoscere, lontano dalle schizofrenie di Arturo come dalla solitudine farneticante di Elvira. Il fascino dei Puritani è insito nella loro totale impossibilità: prima di tutto, nei termini del teatro musicale, impossibilità di radunare un quartetto vocale impeccabile, considerate le difficoltà tecniche ed espressive richieste a tenore e soprano; poi impossibilità di rappresentare in maniera credibile una vicenda che non lo è affatto, e per molte ragioni (c’è un genitore che da un giorno all’altro cambia il futuro marito di sua figlia; c’è un uomo molto innamorato che non esita ad abbandonare la sposa sui gradini dell’altare, esaltato da un’idea politica; c’è una fanciulla che impazzisce di dolore, ma repentinamente guarisce; c’è un colpevole di tutto il disastro, che si vuole morto a ogni costo, ma che nelle ultime battute dell’opera è lasciato in libertà con colei che prima aveva fatto impazzire …). Se la direzione artistica di un teatro considera razionalmente tutte le difficoltà dei Puritani, cede presto allo sconforto e decide di cassare il titolo dal cartellone. Il Teatro Real di Madrid dimostra invece che con una buona coalizione del direttore d’orchestra, del regista, e soprattutto di cantanti validi, l’opera si può rappresentare con esito, se non memorabile, molto felice (dopo tutto quello che abbiamo premesso, scusate se è poco).
La lettura musicale del direttore, Evelino Pidò, è l’elemento più interessante di tutta l’esecuzione: oltre al trascinante ritmo militaresco e al piglio drammatico che non vengono mai meno nei numeri d’insieme, alle sonorità squillanti il direttore coniuga un’effusione di colori che disvela tutte le preziosità dell’opera e la complessità della sua testura (senza dubbio I Puritani sono il capolavoro anche orchestrale di Bellini). Quanto sia raffinato il congegno melodrammatico si può comprendere da un’esecuzione priva di tagli, fornita di tutte le riprese, le cerniere, le variazioni e le modulazioni della partitura originale (va detto subito che la Orquesta del Teatro Real non sempre risponde adeguatamente alle richieste del direttore; molto debole, corriva a iterati incidenti, la sezione degli ottoni … una stecca del corno nel preludio echeggia quale presagio sinistro sulla giornata nuziale che apre l’opera). «Son vergin vezzosa», inteso come quartetto più che numero virtuosistico del solo soprano, è l’apice musicale di questa trama variopinta e imprevedibile di ritmi, di tinte, di atteggiamenti drammatici che Pidò esalta. È inutile e infruttuoso continuare a discorrere dei Puritani in termini di verisimiglianza narrativa o di difetto di realismo, perché Pepoli e Bellini non vogliono affatto riprodurre una vicenda realistica e tanto meno verisimile. Proprio la scena I 8 («Son vergin vezzosa») costituisce un coagulo di azioni insensate, di Arturo come di Elvira, e in parte anche di Enrichetta: il quartetto, tutto sincopi e cesure, con continue mutazioni ritmiche, con la voce sopranile contrappuntata dalla mormorazione dei pertichini, è la negazione di qualsiasi movimento ordinario, ossia di qualunque futuro accettabile per la relazione amorosa dei protagonisti. Quella di Elvira è già reazione isterica agli avventati ripensamenti di uomini che tramano nell’ombra (Valton, suo padre, è all’interno del libretto poco più di un’ombrosa comparsa). È l’assurdità latente nei momenti di gioia come nelle risoluzioni improvvise, che hanno poi conseguenze terribili; a riguardarli assennatamente appaiono totalmente privi di senso, ma nel frattempo hanno modificato l’esistenza. Diversamente, come si potrebbero intendere i versi deliziosamente deliranti che Elvira (come se fosse già pazza) rivolge alla sconosciuta prigioniera? («A illeggiadrir mia prova / deh, non aver a vil / il velo in foggia nova / sul capo tuo gentil!») Questo è l’arcano che Pepoli tenta di esprimere nel suo libretto, e che la musica di Bellini libera grandiosamente. Pidò raccoglie la sfida, innescando il congegno con inesorabile minuzia, e trasformando una gemma virtuosistica nel numero autenticamente più drammatico dell’opera (aiutato dalla tetra ambientazione della regia e delle luci). Neppure il finale I né la scena della pazzia del II atto saranno così felicemente drammatici ed emblematici di tutto lo spirito dell’opera.
In ordine di importanza per la bontà dell’esecuzione, al lavoro direttoriale segue quello del tenore messicano Javier Camarena, che è la sorpresa della recita: sin dall’attacco in piano e con grazia si rivela un interprete vocale adeguato al personaggio di Arturo. La voce è squillante, poderosa, si proietta molto bene nello spazio teatrale; si può dire che il registro più sicuro nella tenuta sia proprio quello acuto, anche perché Camarena adotta un punto di appoggio del suono molto alto, che facilita quel tipo di emissione. Per contro, nel registro centrale e basso la voce risuona meno ferma, come se fosse leggermente nasale. Nel II atto l’artista dimostra una perfetta capacità di alternare accenti lirici e soavi ad altri marcatamente virili e drammatici: ed è una delle prerogative determinanti per la credibilità di Arturo. Sapendo cantare sul fiato e con ottima tenuta, riesce a superare molto bene tutti gli scogli del duetto e del finale; per la cronaca, dopo il «Vieni tra queste braccia» l’esecuzione si interrompe alcuni minuti per le ovazioni del pubblico, che ormai adora questo tenore. Venera Gimadieva è il soprano russo che dà voce ad Elvira: dotata di buoni mezzi tecnici, la sua emissione è caratterizzata da un timbro piuttosto chiaro e omogeneo, anche se nel registro acuto la voce tende a raggrinzirsi e a diventare un poco stridula. Ogni puntatura, inoltre, ha un carattere spericolato, non immune da difetti di intonazione e di tenuta del suono. E poi, perché voler imitare alcune inflessioni callasiane nella scena della pazzia? L’interprete avrebbe potuto proporre una sua propria lettura, e sarebbe stato molto meglio; così, invece, si nega la possibilità di emozionare gli spettatori. Ludovic Tézier è un Riccardo di alto livello: la cavata ricca di armonici pregevoli, il fraseggio molto curato, la complessiva bellezza della voce sono tutti elementi positivi. Negli acuti, però, si percepisce un’inflessione di asprezza che smorza lo splendore delle messe di voce (isolato, ma netto, un incidente nella prima parte del duetto con Sir Giorgio nel II atto pregiudica la sicurezza con cui affronta «Suoni la tromba, e intrepido / io pugnerò da forte»). Nicolas Testé è un baritono parigino molto corretto e molto a suo agio nel ruolo di Sir Giorgio. Corretto anche il Valton di Miklós Sebestyén. Molto valida la Enrichetta di Annalisa Stroppa, mentre risulta un po’ incerto e timoroso nel porgere il Sir Bruno di Antonio Lozano. Impeccabile il Coro del Teatro Real diretto da Andrés Máspero, garanzia di buona riuscita per qualunque spettacolo.
Emilio Sagi elabora uno spettacolo che distingue i tre blocchi dell’opera opponendo bianco e nero, vuoto e pieno, luce e atmosfera lunare. Nel I atto, per esempio, attira l’attenzione un piccolo teatro dei pupi che per pochi istanti compare sulla scena, simulando l’incontro degli sposi: burattini ad altezza di bambino, bianchi e perlacei, evocatori di orrore più che di gioia futura. Si potrebbe ironizzare sul quasi perfetto campetto di pallavolo (manca solo la rete) cui fanno pensare la sabbia al posto della pavimentazione e le panchine ai lati, se non si trattasse di una forma di fedeltà al libretto (che nella didascalia di apertura prescrive appunto «spazioso terrapieno»). Gli elegantissimi costumi di Peppispoo (nome d’arte di Pepa Ojanguren) stridono con la nudità della scena, ma focalizzano l’attenzione sulla fisicità e sulla dignità dei personaggi. Nella stretta del finale I scende un tendaggio bianco che isola Elvira sul proscenio, nascondendo tutti gli altri ma ingigantendo le loro ombre in movimento convulso: è una sintesi efficace della solitudine della fanciulla e della confusione che si presenta ai suoi occhi a partire da questo momento. Sagi decide di rappresentare la follia di Elvira ancora in termini di rispetto del libretto: la fa rientrare in scena nel II atto con una mezza luna fosforescente, apparentemente assurda (ma il testo recita: «Vien, diletto, è in ciel la luna: / tutto tace intorno intorno»; e già nel momento determinante di I 8 Enrichetta e Arturo, contemplando la fanciulla vestita da sposa, esclamavano insieme: «Se miro il suo candore, / mi par la luna, allor / che tra le nubi appar / la notte a consolar»). Appare un poco ingenuo che poi Elvira rinchiuda tale luna posticcia dentro una gabbietta per canarini o si diverta ad accendere le fiammelle dei tanti lampadari che ingombrano la scena (forse un’eredità della nota Donna del lago di Lluis Pasqual?). Ma nel complesso lo spettacolo funziona bene ed è al servizio della musica; per la buona riuscita dei Puritani – che il pubblico di Madrid saluta in termini addirittura trionfali – anche l’umiltà del regista di fronte alle esigenze musicali diventa prerogativa indispensabile.   Foto Teatro Real © Javier del Real