“Il pirata” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2019-2020
“IL PIRATA”
Melodramma in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Vincenzo Bellini
Ernesto GEORGE PETEAN
Imogene SONYA YONCHEVA
Gualtiero JAVIER CAMARENA
Itulbo MARIN YONCHEV
Goffredo FELIPE BOU
Adele MARÍA MIRÓ
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Maurizio Benini
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Pepa Ojanguren
Luci Albert Faura
Videoproiezioni Yann-Loïc Lambert
Nuova produzione del Teatro Real in coproduzione con il Teatro alla Scala di Milano
Madrid, 6 dicembre 2019
«Per noi tranquillo un porto / l’ampio oceàno avrà». Il mare crudele, il sole che si offusca, l’altare, la tomba, il figlio amato di uno sposo detestato e l’amore inestinguibile per un condottiero divenuto pirata: è difficile reperire tanti elementi della poetica romantica, oltre alla necessaria ambientazione medioevale, all’interno di un libretto anteriore al 1827. E così, Il pirata fu davvero il primo melodramma romantico italiano, di soli quattro anni successivo alla massima espressione del neoclassicismo in musica, ossia della rossiniana Semiramide. La coproduzione del teatro in cui vide la luce e dove fu rappresentato lo scorso anno giunge ora al Teatro Real di Madrid, nella cui storia non era mai comparso: nella capitale spagnola fu eseguito per l’ultima volta nel 1843, ma nei teatri del Príncipe e del Circo, sette anni prima che il Real si inaugurasse. Dopo il Trovatore dello scorso luglio, Maurizio Benini torna al Real per dirigere l’opera di Bellini con una concertazione molto accurata, tempi piuttosto morbidi e predilezione per le nervature ritmiche, anche all’interno dei disegni più melodici. Il direttore può del resto contare su un terzetto magnifico di voci, che garantisce all’opera uno dei più grandi successi della storia recente del Real. Il messicano Javier Camarena, che la stampa spagnola già esalta come «rey en el Teatro Real», è l’interprete perfetto per il personaggio di Gualtiero; con lui si può finalmente ascoltare un cantante dalla piena personalità vocale, capace di restituire al tenore la dignità di protagonista dell’opera, in parallelo e non al disotto del soprano. Sin dall’impervia cavatina «Nel furor delle tempeste» Camarena modula l’emissione senza alcuna forzatura, anzi con leggera attenuazione del volume in corrispondenza delle note più alte, cosicché l’acuto si manifesti naturale nelle risonanze e nel fiato (una prodezza di cui oggi sono capaci pochissimi). Il timbro chiaro e vibrante si associa a un porgere sempre molto accurato, ma al tempo stesso costantemente virile, giacché la voce di Camarena può soddisfare sia le esigenze del belcanto sia l’espressività romantica e drammatica del personaggio (carattere composito che si apprezza soprattutto nelle cabalette). Sempre più entusiasmante nel corso del dramma, Camarena riceve un’ovazione dopo l’ultima aria, «Tu vedrai la sventurata», un capolavoro di mezze voci, emissione suadente e pianissimo. Anche il soprano bulgaro Sonya Yoncheva (che fu Imogene alla Scala nel 2018) è ottima interprete della sua parte, presentandosi all’inizio come assorta in pensieri lontani dalla realtà, e acquistando progressivamente vigore grazie alla ricomparsa dell’antico amante. Tuttavia, l’impostazione vocale della Yoncheva è assai diversa da quella del tenore, poiché nella sua emissione si percepiscono lo sforzo e la sofferenza, soprattutto in corrispondenza del registro acuto, sotto forma di piccole incrinature del timbro; se si tratta di un accorgimento finalizzato a rappresentare una donna destinata alla distruzione psicologica e alla perdita della ragione, si rivela felice e molto apprezzato dal pubblico; se invece fa parte della linea di canto del soprano, lascia qualche perplessità. Yoncheva, infatti, nel tentativo di far coesistere vocalmente la donna oppressa e sventurata ma anche la madre preoccupata per l’avvenire del figlio e per la sua propria reputazione morale, cede alla tentazione di imitare il languore, l’elegia, la forte determinazione e il temperamento di colei che ripropose il personaggio di Imogene alla fine degli Anni Cinquanta, lasciando in eredità documenti discografici imprescindibili, ma che tentare di riproporre oggi è quanto meno pericoloso (anche se la maggior parte del pubblico ne subisce inconsapevolmente il fascino). Comunque sia, i due duetti tra Gualtiero e Imogene sono di una coerenza musicale straordinaria. Ernesto, il baritono antagonista, è interpretato dal rumeno Gorge Petean, dalla voce di timbro chiaro e molto fluida nell’emissione; forse un po’ limitato nella proiezione – almeno rispetto alla coppia protagonista – l’artista può contare su una linea di canto solida e su una tecnica molto corretta (adatta, dunque, alla tessitura acuta della sua parte). Ernesto è infatti il condottiero militare che deve esprimere marzialità assoluta, sin dall’esordio tutto metastasiano («Sì, vincemmo, e il pregio io sento / di sì nobile vittoria»), e Petean si disimpegna con molta naturalezza in questo compito (anche grazie al direttore, giacché la seconda parte del I atto risente di questo nuovo elemento militare, di marcia e di atmosfera bellica, fino al meraviglioso concertato finale). Molto buono il basso spagnolo Felipe Bou nella parte di Goffredo, al pari del soprano catalano María Miró come Adele, mentre un po’ incerto nella linea di canto è il tenore bulgaro Marin Yonchev come Itulbo. Un encomio va riservato al Coro del Teatro Real preparato da Andrés Máspero, impeccabile in entrambi i blocchi femminile e maschile. Il mare, le nozze, la guerra (quella delle battaglie di terra) sono i tre grandi temi visivi che vanno sovrapponendosi nel corso del I atto per presentare i personaggi principali e che caratterizzano lo spettacolo di Emilio Sagi. La scena realizzata da Daniel Bianco è molto semplice, visto che gioca soprattutto sui riflessi e sulle corrispondenze determinate da grandi pannelli mobili riflettenti, laterali e superiore, prescindendo però da qualunque altro apparato od oggetto. La regia può così concentrarsi sulla recitazione dei personaggi principali o sui movimenti del coro. Pur senza essere collegati a una specifica epoca storica, i costumi di Pepa Ojanguren puntano sull’eleganza dei particolari e la valenza rappresentativa, in perfetta coerenza con gli intenti della regia: la casacca del pirata (di una sobrietà fortunatamente lontana da ogni oleografismo cinematografico), gli abiti nuziali del coro femminile, la divisa di gala di Ernesto, l’abito a lutto di Imogene nella scena finale. Quest’ultima è senza dubbio la più bella di tutto lo spettacolo, con il fondale occupato da un’immensa vela che discende dall’alto e che converge su Imogene, diretta al catafalco con il feretro di Ernesto; muovendosi, la vela si trasforma in labaro nero che ricopre la tomba e la vista stessa della donna (corrispondenza perfetta con il libretto: «Oh, sole! ti vela / di tenebra oscura»), mentre il patibolo per Gualtiero è semplicemente evocato («il palco funesto, / per lui s’innalzò»). Il pirata è anche il melodramma che si chiude non secondo le esigenze narrative del libretto – dato che Bellini decise di tralasciare l’ultima scena con l’assedio dei pirati e il suicidio del protagonista – bensì con la sublimazione della follia di Imogene quale catastrofe tragica culminante, che assorbe ogni attenzione della musica e dello spettatore.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid