“Manon Lescaut” al Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e Balletto 2018-2019
“MANON LESCAUT”
Dramma lirico in quattro atti di Luigi Illica, Domenico Oliva e Marco Praga, dall’omonimo romanzo di Antoine-Françoise Prévost
Musica Giacomo Puccini
Manon Lescaut MARÍA JOSÉ SIRI
Lescaut MASSIMO CAVALLETTI
Renato Des Grieux MARCELO ÁLVAREZ
Geronte di Ravoir CARLO LEPORE
Edmondo, Il maestro di ballo, Un lampionaio MARCO CIAPONI
L’oste EMANUELE CORDARO
Un musico ALESSANDRA VISENTIN
Sergente degli arcieri DANIELE ANTONANGELI
Un comandante di marina GIANLUCA BREDA
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia David Pountney
Scene Leslie Travers
Costumi Marie-Jeanne Lecca
Coreografia Denni Sayers
Luci Fabrice Kebour
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 16 aprile 2019
Il progetto di riscoperta dei materiali originali pucciniani avviato da Riccardo Chailly con Turandot e Madama Butterfly tocca la Ur-Manon Lescaut torinese del 1893, mutata successivamente nella strumentazione, accorciata di qualche pagina e rimaneggiata da Puccini nel corso di un trentennio, fino alla ripresa scaligera del 1932 (diretta – al pari della prima assoluta – da Arturo Toscanini). Già nel 2008 il direttore presentò a Lipsia le parti che l’edizione critica di Roger Parker (Casa Ricordi, Milano 2013) aveva collocato in appendice, in quanto espunte o modificate dall’autore. Ora, alla ripresa della partitura originale è dedicata una nuova produzione del Teatro alla Scala affidata al regista David Pountney. La parte più cospicua accantonata da Puccini è il concertato del finale I, scritto verso la fine del 1893, molto convulso sul piano ritmico e interessante per una sorta di ricapitolazione dei temi precedenti (in opposizione al finale II, tutto contrappuntistico e geometrico).
Il lavoro di concertazione è, come sempre, rifinito e preciso; Chailly rimarca con sonorità massicce (anche a discapito della perfetta udibilità di qualche voce) l’empito sinfonico della scrittura strumentale, cesellando e isolando altre pagine, come le melodie orientali del II atto; il celebre intermezzo vive di un respiro ampio, leggero ma implacabile nel prefigurare un destino di morte, con le arpe che lo attraversano tutto, imponendosi per la sonorità netta e trasparente sull’onda tenue degli archi. Nel finale IV risuonano più grevi i rulli di tamburo, evocanti di nuovo una marcia al supplizio. L’orchestra, insomma, enuncia un poema sinfonico nervoso e cangiante, il cui dirompente scintillio fa da narrazione principale; purtroppo, la compagnia cantante che dovrebbe assecondare tale fiumana di sentimenti o di smaliziate movenze si attesta a un livello di compartecipazione più basso. Marcelo Álvarez, dopo aver cantato la prima rappresentazione si congedò per alcuni giorni a causa di una broncopatia; ritorna a cantare soltanto questa sera, ma con risultati poco lusinghieri: il personaggio è sì credibile, la presenza scenica adeguata, ma l’emissione vocale affaticata, la linea di canto incerta, l’intonazione discontinua, pregiudicata da disomogeneità nel registro e dallo sforzo delle note acute. Quando tenta di alleggerire il fiato, la voce perde di corpo e di tono, cosicché il suo Des Grieux non vive mai della musicalità necessaria a un giovane innamorato.
Anche María José Siri appare poco coinvolta sul piano emotivo: la sua Manon non è né l’ingenua fanciulla corrotta da un seduttore né la femme fatale voluttuosa che promana dal tendenzioso libretto; piuttosto, è un personaggio o sorpreso o seccato per quanto sta accadendo. Il momento musicalmente più interessante – coincidente anche con l’espressività più drammatica – è nell’aria del soprano del IV atto, «Sola… Perduta, abbandonata!», che nella versione del 1893 risulta molto più estesa e frammentata in versi brevi. Carlo Lepore è un ottimo Geronte, soprattutto perché non deforma il personaggio in direzione del ridicolo, ma ne trae tutta la compassata dignità; inoltre, sua è la voce dotata di più personalità, originalità e musicalità dell’intera compagnia. Massimo Cavalletti è un Lescaut abbastanza brillante ed elegante nel porgere, anche se qualche acuto pone in pericolo l’integrità dell’emissione. Marco Ciaponi, nel triplice ruolo di Edmondo, del maestro di ballo e del lampionaio, è corretto nell’impostazione, sebbene anche la sua voce faccia fatica ad amalgamarsi, a causa della povertà di armonici, alla tavolozza delle tinte orchestrali. Lo spettacolo di David Pountney, pur disponendo di ogni mezzo per risultare pregevole, fallisce in ogni ambito, insistendo su un’impostazione errata o su idee insulse. Se la narrazione dell’abate Prévost oggi si direbbe misogina e moralistica, l’opera di Puccini – soprattutto nella seconda metà, degli atti III e IV – vira piuttosto verso il disinganno e la sofferenza che conducono Manon alla morte; Manon Lescaut è una storia lugubre e triste, che racconta l’impossibilità dell’amore schietto e libero, raggiungibile per poco tempo, soltanto al prezzo della vita e di terribili umiliazioni. Nello spettacolo di Pountney nulla di tutto questo: né allusioni al tentativo di emancipazione, ma neppure fascinazione e sensualità; né moralismi o censure sulle scelte di Manon, ma neppure condanna dell’ambiguità di Lescaut o Des Grieux. L’intento dello spettacolo soggiace invece a un’impalcatura scenografica di ambientazione ferroviaria (tutto si svolge sempre in treno o in stazione) e al kitch degli arredi, come se i moventi della drammaturgia non rivestissero alcuna importanza. Eppure, protagonista dell’opera non è Hercule Poirot in Assassinio sull’Orient Express, bensì un’eroina la cui estenuazione si esprime nella musica di Puccini con un dettaglio quasi maniacale e morboso. I costumi di Marie-Jeanne Lecca sono meravigliosamente accurati ma non sempre funzionali: perché Des Grieux, Lescaut, Geronte ed Edmondo vestono praticamente allo stesso modo, con elegante redingote bianca, come se si potessero radunare in un solo insieme tipologico? Il fasto degli arredi è necessario all’ambientazione del II atto, ma perché collocarlo di nuovo in una carrozza ferroviaria? Se il treno rappresenta un simbolo psicoanalitico, nel corso dello spettacolo nessuno comprende a che si riferisca.
E i molti doppi adolescenziali di Manon, oltre che ricomparire casualmente, allentano ulteriormente la sensualità di cui il personaggio principale dovrebbe essere circonfuso. Sul piano strutturale, per concludere, l’inserimento di vagoni all’interno del palcoscenico quale punto di proiezione delle voci soliste costituisce un errore grave: la nuova cassa di risonanza, specie quando il treno o i personaggi sono in movimento, imbriglia la naturale dinamica acustica e la distorce, creando momenti di sordità o di compressione decisamente fastidiosi. Il pubblico scaligero reagisce dapprima con un certo fastidio: al termine del II atto le contestazioni sono nette, anche se prevalgono quei tipici applausi di cortesia che mitigano sempre i momenti di imbarazzo. Alla fine dell’opera, invece, quando gli interpreti e il direttore si presentano sulle scene, si sentono soltanto applausi per tutti. In parte abbacinati dal lusso ferroviario, in parte affascinati dalla sinfonia restituita da Chailly, molti avranno pensato che fosse preferibile salutare con decoro – per archiviarlo in fretta nella memoria individuale – un allestimento tanto incongruo quanto pretenzioso.  Foto © Teatro alla Scala di Milano