Mirella Freni (1935-2020): un ritratto

Mirella Freni (Modena 27 febbraio 1935 – 9 febbraio 2020)
Incarna il tipo del soprano ultimo grido, alla Twiggy: naturalmente fatte le debite proporzioni con l’immagine che uno ha d’un soprano. Niente fianconi rullanti, né quell’immenso decolté (utilissimo, d’altronde, alle cantanti per infilarci il fazzoletto o la rosa), né quel seno a fruttiera considerato da sempre una conseguenza degli acuti: i do sopra il rigo hanno bisogno di una vasta cassa di risonanza. ” Dio sa cosa pagherei e per averne almeno un pochino di più “, dice Mirella Freni,” Ma se dopo tredici anni di “mestiere” sono rimasta piatta, credo che non ci siano speranze. Resterò piatta per tutta la vita “.
Eppure, cosa incredibile, questa cantante non si nutre di una foglia di lattuga come la maggior parte delle sue colleghe. Mangia tutto quel che le piace. E le piacciono proprio i capisaldi della cucina Emiliana, dai “turtléin” con ragù, al cotechino, alla polenta pasticciata. “E se non mangio guai perdo anche quel poco di spessore che ho”.
Tuttavia questa donnina che non supera i 48 kg, dei capelli biondi legati con un nastro di organza nera, gli occhialoni rotondi sulla punta del naso come prescrive Vogue, le lunghe ciglia da bambola, la bocca carnosa, non si dà tregua. È reduce appena da una tournée compiuta attraverso gli Stati Uniti con i complessi del  Metropolitan, consacrazione suprema e fatica estrema per una cantante lirica., ma ne parla con naturalezza, quasi si trattasse di ordinaria amministrazione. “Beh, arrivare al Met”, dice inghiottendo un tortellino,” Non è difficile quanto restarci. Questo teatro haun tale giro di cantanti affermati che, se non hai successo clamoroso, gli impresari si dimenticano subito di te “. Lei evidentemente, la ricordano bene. Debutta al Metropolitan nel 1965 e vi è tornata da allora ogni stagione. Eppure, Mirella Freni dichiara di aver fatto di tutto per non arrivare: il suo sogno era di diventare una brava massaia, fare la pasta in casa, mettere le ciliegie sotto spirito, compiti meno logoranti di quelli che riserva il “cammino della gloria”. Inoltre, le manca l’ambizione, molla essenzialmente per chiunque voglia arrampicarsi su una vetta: “Io”, afferma, “Non cerco mai nessuno: se mi cercano gli altri, bene, sennò me ne sto in casa a fare le tagliatelle”. Che è un modo di starsene “a fare la calza” nella versione emiliana. (…)

Non sono arrivata di colpo come molti credono, pensando che abbia cominciato a cantare nel 1962, quando avvenne il mio debutto alla Scala col Falstaff. Cantavo già da sette anni. Il mio rodaggio ha avuto luogo per la maggior parte in Olanda, ad Amsterdam, Dopodiché venni scritturata per il festival di Glyndebourne. Seguì il Covent Garden, infine la Scala “. Poi, il gran volo per il mondo, contesa dei maggiori teatri.” Ho avuto anche la fortuna “, aggiunge quasi per scusarsi dei propri successi, “Di essere diretta dai migliori registi del momento: Visconti, Zeffirelli, Squarzina, Enriquez, Jean-Louis Barrault, Jean Vilar. E il regista, lei lo sa, ha oggi un peso predominante nell’opera lirica. Per quel che mi riguarda però –  io sono un fiammifero non gli permetto di spadroneggiare troppo, ma soltanto di aiutarmi a dare il meglio di me stessa: come fa il Luchino. Il  Luchino non ti impone mai nulla, chiede sempre il tuo parere: e lavorare con lui è un incanto. Malgrado ciò, il nostro primo incontro fu piuttosto burrascoso: dovevamo rappresentare La Traviata al Covent Garden e Visconti, che non mi conosceva, aveva preparato, secondo il suo stile, una “Traviatona” gigantesca. Tutto enorme, caminetti e specchi altissimi, sedie come torri. Quando arrivo, per poco non sviene: “Come, sei tutta lì?”. Così, ho dovuto fare le prove per giorni ritta su uno sgabello, altrimenti e scomparivo tra le suppellettili. Per la “prima” il Luchino, che è un angelo, fece segare tutto sulla mia misura”. (…)
Gli americani le riservono sempre entusiastiche accoglienze, anche perché, come tutti gli stranieri, amano molto le voci “italiane, calde e piene di temperamento: “La bravura stilistica li lascia freddi: hanno un mucchio di cantanti sofisticate e tecnicamente perfette.  È l’abilità interpretativa che li trascina. Ed io, se non sento un personaggio e non posso entrarci fino  in fondo, piuttosto rinuncia alla parte. Prenda il caso de I pescatori di perle: mi offrirono un contratto vantaggiosissimo perché cantassi in questa opera, a Chicago. io non volevo accettare, non mi sentivo in questi panni e lo dissi: ma loro a insistere come se volessi fare la preziosa.  Per punto di impegno mi mise a studiare la parte; ma tutte le volte che provavo a cantare, Leone (Leone Magiara ndr) moriva dal ridere, diceva che sembravo una gallina spennata. Era vero: io stessa mi sentivo fare coccodè coccodè con voce da ebete. Il personaggio mi era totalmente estraneo.; ma come si può prendere sul serio una specie di mentecatta che infila una sciocchezza dopo l’altra? Fu quella  la prima volta che ruppi un contratto “.
Si rifiuta anche di interpretare opere moderne, che considera anti vocali, scritte più per macchine che per voci umane: “Se provi a cantarle anche una volta sola, la voce ti si strappa, ti va a brandelli e, come cantante sei finita. La mia massima aspirazione invece quella di interpretare La Sonnambula e debbo riuscirvi, a corso di smettere di cantare, subito dopo.  Perché il mio è un vocino fragile, delicatissimo: una vocina da soprano lirico che non potrai mai affrontare le operone da soprano drammatico, tipo l’Aida o, Dio se ne scampi,  il Lohengrin. D’altronde, non avrei neppure il fisico adatto. Mi vede lei vestita da Elsa di Brabante, cantare piantate a gambe larghe in mezzo al palcoscenico ?”. (…)
(Estratto da Mirella Freni “il soprano che piace ai minorenni” di Donata Gianieri, 1969)