Teatro Sociale di Como: “Adriana Lecouvreur”

Teatro Sociale di Como – Stagione Lirica 2014-2015
“ADRIANA LECOUVREUR”
Opera in quattro atti
Libretto di Arturo Colautti, dalla commedia di Eugène Scribe e Ernest-Wilfrid Legouvé.
Musica di Francesco Cilea
Adriana Lecouvreur DARIA MASIERO
Maurizio ANGELO VILLARI
Il principe di Bouillon LUCA GALLO
La principessa di Bouillon SANJA ANASTASIA
Michonnet FRANCESCO PAOLO VULTAGGIO
L’abate di Chazeuil MATTEO MACCHIONI
Poisson UGO TARQUINI
Quinault RICCARDO FASSI
Mad.lla Jouvenot LUCREZIA DREI
Mad.lla Dangeville LARA ROTILI
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro del Circuito Lirico Lombardo
Direttore Carlo Goldstein
Maestro del coro Antonio Greco
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Luci Paolo Coduri de’ Cartosio
Coreografie Simonetta Schiavetti
Coproduzione con Teatri del Circuito Lirico Lombardo, Ente Concerti ‘Marialisa de Carolis’ / Teatro di tradizione di Sassari
Como, 18 ottobre 2014

Un salto di due secoli per passare dall’epoca in cui l’opera è ambientata all’epoca in cui è stata scritta: Adriana Lecouvreur si trasforma da nota attrice della Comédie Française settecentesca a diva del cinema muto d’inizio Novecento. Ecco in sintesi la proposta di Ivan Stefanutti, che firma regia, scenografia e costumi di questo allestimento andato per la prima volta in scena sempre qui a Como nel 2002. Non si pensi però ad uno sterile travaso tra periodi storici. L’invito è quello di rileggere la figura di Adriana non come personaggio storicamente esistito, ma come incarnazione di quel divismo imperante alle porte del XX secolo. Sulla scia della divina Sarah Bernhardt, si assiste alla trasfigurazione di semplici donne di spettacolo in vere e proprie icone idealizzate e sublimate nel mito, erette a vere e proprie muse per l’immaginario collettivo. Francesca Bertini, Asta Nielsen, Pina Menichelli, Lyda Borelli…ecco solo alcune delle stelle di quel firmamento divistico che in più casi posero le loro radici nel teatro ma raggiunsero l’apice della celebrità con l’allora neonata magia del cinematografo. Stefanutti propone un dipinto di Adriana Lecouvreur molto più vicino a queste dive che non alle attrici imparruccate del Settecento. Un’interpretazione interessante, se consideriamo anche che il debutto dell’opera di Cilea è avvenuto proprio nel bel mezzo di quegli anni (1902).
Il riscontro visivo di questa impostazione è racchiuso nelle splendide scene di schietto gusto Belle Èpoque. Molteplici i riferimenti alle floride architetture di Victor Horta o Hector Guimard e ad un più generico gusto Art Nouveau evidente nei complementi d’arredo che arricchiscono il palco di atto in atto. C’è da dire che questo stile decadente e questo periodo storico in generale siano particolarmente gettonati dai registi d’opera, tant’è che ci vengono proposte spessissimo scenografie di questo stampo, magari non sempre belle ed eleganti quanto questa, ma comunque simili…Tuttavia questa messinscena ha una particolarità che la distingue da tutte le altre. Si parlava di una chiave di lettura strettamente legata al cinema muto, e i richiami a quest’arte sono evidenti. Tutta l’impostazione scenica è giocata sui non-colori bianco e nero, dagli elementi architettonici ai sontuosi costumi, dalle cianfrusaglie dietro le quinte al raffinato mobilio domestico. L’effetto complessivo è davvero singolare e di forte impatto. L’unica riserva si può esprimere riguardo a una certa staticità dell’impianto scenico (i cambi di scena avvengono solo tra un atto e l’altro), ma le luci di Paolo Coduri de’ Cartosio allontanano efficacemente ogni rischio di monotonia, ricreando atmosfere eterogenee con luci neutre di grande impatto, capaci di delineare chiaroscuri e contrasti suggestivi sempre vari.
Un’ultima soluzione registica degna di nota: nella totale monocromia, vi è un’unica punta di colore riservata all’ultimo atto. Nel finale notiamo un enorme ritratto che troneggia imponente nella dimora di Adriana e raffigura la già citata Lyda Borelli, cui il regista fa esplicito riferimento. Alla morte della protagonista, il ritratto si illumina e si colora vivacemente: è forse il compimento della “divinizzazione” che trasforma definitivamente l’attrice in icona immortale? Adriana non muore: sopravvive ai secoli nell’eternità dell’arte.
L’alta qualità dell’allestimento non si smentisce nemmeno sul fronte musicale, a cominciare dalla più che soddisfacente direzione di Carlo Goldstein. Il giovane direttore guida l’Orchestra “I Pomeriggi Musicali” con sicurezza, estrapolandone sonorità sempre interessanti che vanno a valorizzare l’originale partitura di Cilea nella sua raffinata varietà melodica, dagli slanci taglienti alle pagine più melanconiche. Goldstein sembra tendenzialmente calcare la mano più sull’impeto passionale che sulle sfumature liriche, ma non mancano momenti di eccezionale pathos intimistico come l’intermezzo sinfonico che apre il quarto e ultimo atto. Ne risulta una lettura equilibrata nella sua eterogeneità, florida ed elegante come l’ambientazione Bella Époque che pervade la messinscena. Altrettanto felice è la prestazione degli artisti sul palco. Daria Masiero presta la sua splendida voce di soprano lirico alla protagonista Adriana, disimpegnandosi in modo più che convincente nonostante lo spettro di tante altre grandi interpreti del passato che si sono cimentate nel ruolo (senza andare a scomodare quel non plus ultra chiamato Magda Olivero, per qualsivoglia ingenuo confronto). La Masiero brilla – come sempre – per la limpidezza di preziosissimi filati abbinati all’omogenea gestione di ogni registro, spaziando con sicurezza dalla morbida pastosità della zona centrale alle puntature in acuto squillanti e ben sostenute (una sintesi convincente di tutte queste sue peculiari doti canore si ritrova già nell’eterea aria di sortita, “Io son l’umile ancella”). C’è da dire che forse una maggiore incisività, fierezza e magnetismo da primadonna – piuttosto carenti soprattutto nelle parti declamate come il monologo “Giusto cielo! che feci in tal giorno?” – avrebbero potuto valorizzare ulteriormente la sua Lecouvreur, che per qualità ed espressività musicali rimane tuttavia un’interpretazione di lusso. Notevole anche il Maurizio di Angelo Villari, dotato di ottima estensione, gradevole vibrato e – soprattutto – volume impressionante. Il tenore, prototipo perfetto del lirico spinto, risulta pressoché ineccepibile nell’esecuzione delle sue due arie principali (“La dolcissima effigie” e “L’anima ho stanca”), con una resa splendida anche grazie al bel timbro e alla straordinaria capacità di proiezione del suono. Tuttavia, nonostante le doti vocali fuori dal comune, le lacune tecniche non perdonano: un punto debole piuttosto grave della sua interpretazione è la quasi totale mancanza d’appoggio che sfocia in alcuni problemi di intonazione, sbavature e disomogeneità d’emissione, drammaticamente evidenti nelle mezze voci. Errori non trascurabili, certo, ma nella loro sporadicità insufficienti a mettere in ombra una performance complessivamente convincente.
Francesco Paolo Vultaggio dà voce e sembianze a un adorabile e goffo Michonnet. La totale padronanza della scena abbinata a un’innata espressività, permettono al cantante di calarsi perfettamente nei panni del dolce innamorato senza speranze, nonostante la sua giovane età vada un po’ a cozzare con l’anzianità del personaggio interpretato, intuibile dal libretto. Dotato di timbro caldo e gradevole, Vultaggio modula la sua bella voce baritonale con omogeneità in ogni angolo della tessitura, con particolare sicurezza nel registro acuto, mostrando pieno controllo del mezzo vocale anche in pagine non semplici come la romanza “Ecco il monologo”. Antitesi della tenerezza è invece la Principessa di Bouillon, la crudele rivale di Adriana interpretata da Sanja Anastasia. In continua oscillazione tra algido contegno e furia vendicativa, il mezzosoprano dipinge un’antagonista altera ed elegante, mettendo in gioco ottima presenza scenica e gusto musicale. Nonostante i movimenti plateali e la gestualità calcata imposti probabilmente dalla regia (evidenti più che mai in “Acerba voluttà, dolce tortura”), il canto non risente troppo di questa impostazione quasi caricaturale (se non in alcuni passaggi), sostenuto da una bella voce possente e scura nel timbro, che appare particolarmente adatta al ruolo. Meno a fuoco ma interessante il suo consorte, il Principe di Bouillon, interpretato da Luca Gallo. Il basso dà il meglio nei duetti con l’abate di Chazeuil (Matteo Macchioni), sempre divertenti, efficaci, e ben cantati: complice senz’altro la frizzante partitura in sé, ma anche l’ottima intesa tra i due. Da segnalare in particolare il primo di questi , “Fior d’amor, arma di Venere”, in cui si mettono subito in luce il preciso fraseggio di Gallo e la voce chiara e squillante di Macchioni. Infine, dispettose, civettuole ed esuberanti la Mademoiselle Jouvenot di Lucrezia Drei e la Mademoiselle Dangeville di Lara Rotili, assolutamente adorabili nel bisticcio dietro le quinte che apre l’opera. Al loro fianco convincono anche i due teatranti Poisson e Quinault, rispettivamente Ugo Tarquini e Riccardo Fassi. Sempre ottima la prova del Coro AsLiCo preparato dal Maestro Antonio Greco.
Al termine di questi quattro intensi atti di grande teatro nel teatro, successo senza riserve e convinte ovazioni per tutti, nonostante le numerose poltrone vuote. Per chi avesse fatto l’errore di perdersi questo meraviglioso spettacolo e volesse rimediare, prenda nota: si replica a Pavia (Teatro Fraschini, 24 e 26 ottobre), Cremona (Teatro Ponchielli, 20 e 22 novembre) e Sassari (Nuovo Teatro Comunale, 5 e 7 dicembre).