“Tosca” a Torre del Lago

Torre del Lago, Gran Teatro all’Aperto “Giacomo Puccini”, 59° Festival Puccini
TOSCA
Dramma lirico in tre atti, libretto di Giuseppe Giacosa, dal dramma “La Tosca” di V. Sardou.
Musica di Giacomo Puccini   
Floria Tosca  NORMA FANTINI
Mario Cavaradossi  MARCO BERTI
Il Barone Scarpia  GABRIELE VIVIANI
Cesare Angelotti  CHOI SEUNG PIL
Spoletta  MARIO BOLOGNESI
Il Sagrestano  ANGELO NARDINOCCHI
Sciarrone  FRANCESCO MUSINO
Un carceriere  MASSIMILIANO DAMATO
Un pastore  ELEONORA RONCONI
Orchestra, Coro e Voci bianche del Festival Puccini
Direttore Alberto Veronesi
Maestro del Coro Stefano Visconti
Voci bianche dirette da Sara Matteucci 
Regia Jean Louis Grinda
Scene  Isabelle Partiot Pieri
Costumi  Christian Gasc
Luci  Valerio Alfieri  
Torre del Lago, 26 luglio 2013

Senza emozionarmi più di tanto è andata in scena questa sera la prima recita di questa produzione di “Tosca” al Festival Puccini     di Torre del Lago. Le mie maggiori perplessità vanno alla regia e alla scenografia: probabilmente pensate per un altro tipo di palcoscenico (si tratta infatti di una co-produzione con gli enti lirici di Torino, Montecarlo e Valencia), il risultato visivo globale tende a rimpicciolire ulteriormente le figure umane contro degli sfondi monocromatici enormi, tutti però senza profondità e con non poche incoerenze. La parte migliore spetta al terzo atto nel quale la presenza di un accenno al cielo romano aiuta a riambientarsi e a seguire il racconto musicale di Puccini che nella pagina sinfonica che apre questo atto vuole farci sentire e vedere proprio lo spirito più sincero di questa meravigliosa città. Per fortuna che almeno la musica ci ha ridato qualche ricordo e qualche colore contro il grigiore e la monotonia generale della parte visiva. Secondo il mio parere del tutto inutile l’apparizione, anzi la sfilata del pastorello dentro Castel Sant’Angelo, esattamente dove stanno per giustiziare Cavaradossi. Perché eliminare la bella suggestione del canto lontano ed etereo di un “interno”? Non ho trovato interessante o quantomeno funzionale nel secondo atto un catafalco mobile che si trasforma dalla tavola per la povera cena interrotta di Scarpia in una botola per l’ingresso alla camera della tortura. A metà tra un altare di marmo e una tomba, dietro la quale una grande mappa della città di Roma, come quelle che si possono trovare in una centrale di polizia. Salvo poi trasformarsi nella finestra, anzi no nello schermo sul quale si proietta la scena della cantata (microspie e telecamere…? – segnalo comunque che l’ambientazione è quella classica dei giorni della battaglia di Marengo, quindi il 1800): l’immagine è bella di per sé, ma serviva più a distrarre dalla fissità di un’azione scenica poco strutturata che a raccontare qualcosa di indispensabile. A meno che non si volesse dare al pubblico modo di vedere la famosa Regina a cui Tosca non potrebbe chiedere che la grazia per un “cadavere”, se non cedesse alla lussuria di Scarpia. Davvero serviva mostrarlo? Perché per fare ciò il coro d’interno è stato ridotto per questioni di spazio. Quindi a vantaggio dell’occhio e a svantaggio dell’orecchio. Altra cosa poco importante ma che ha distratto dall’azione e dalla musica ad inizio atto è stata la presenza di una donnina vestita solo col lenzuolo, cacciata via dopo “l’uso”,  per raccontare l’esuberanza sessuale di Scarpia. In questo modo abbiamo avuto più l’immagine un dongiovanni seduttore che di un sadico a cui piace la violenza e la sopraffazione. Anche se poi la comparsa di una grande tela con una citazione di una scena di stupro da un dipinto manierista di fine Cinquecento è stata una bella idea per ricordarci che questo tipo di fatti “sempre sono e sempre furono”. Nel primo atto non era chiaro capire perché il ritratto dell’Attavanti fosse allo stesso tempo una pedana su cui ci si può mettere a sedere o in piedi… Ed è rimasta davvero solo sullo sfondo la presenza del coro nel Te Deum, senza alcuna solennità, con un gesto incomprensibile di Scarpia sugli accenti finali dell’atto che strappa i fiori offerti testé alla Madonna da Floria Tosca, proprio sotto gli occhi di un cardinale a cui ha appena baciato la mano… Il pubblico aveva proprio bisogno di ricordare che Scarpia sta per fare qualcosa di “molto cattivo” nell’atto seguente?
La direzione musicale di Alberto Veronesi è stata coerente con questa visione del brano a grandi tratti di pennello, con più attenzione agli aspetti drammatici e incisivi che a quelli lirici e cantabili. L’Orchestra ha dimostrato la sua capacità di colorire e rendere con chiarezza e precisione questa splendida partitura. Anche i momenti corali e vocali d’insieme sono stati eseguiti con precisione e bel suono sia dal Coro del Festival (preparato da Stefano Visconti) che le voci bianche (preparate da Sara Matteucci). Nella compagnia di canto la bella e carismatica presenza di Norma Fantini nel ruolo titolo è stata uno dei veri punti di forza di questo spettacolo. La bella voce ampia e morbida del soprano ha spaziato con maggior agio tra gli accenti lirici che quelli più drammatici, dando del personaggio una immagine dolcemente femminile, la cui forza nasce più dalla disperazione del momento che da una vera forza interiore: a me piace questa visione più umana di Tosca e, in questo, ho apprezzato la scelta registica di evitare la pantomima tradizionale del crocifisso e dei candelabri dopo l’assassinio di Scarpia. Tosca, invece,  finisce la scena restando in quello stato confusionale normale per una persona che solo pochi minuti prima e per la prima volta nella vita ha affondato un pugnale nel cuore di un altro essere umano. Bella e coinvolgente la sua giustamente applaudita interpretazione dell’aria Vissi d’arte. Il pittore Mario Cavaradossi ha cantato con la voce sonora e dal bel timbro brunito di Marco Berti, il quale, nonostante qualche suono aspro nel settore più acuto, ha interpretato con sicurezza il personaggio, in un crescendo tra un primo atto più cauto e controllato verso un ultimo più partecipato e pieno di slancio, dimostrato soprattutto nella sua intensa interpretazione (bravo per i suoni morbidi!) di E lucevan le stelle. Gabriele Viviani nel ruolo del Barone Scarpia ha donato al pubblico una linea di canto piena di profonda musicalità sostenuta da un colore davvero bello e da ottima tecnica vocale. La sua giovane aitante figura toglie al ruolo quell’aspetto genericamente e tradizionalmente “odioso”, anche se, secondo me, il suo Scarpia manca ancora di un’aura credibile di pura malvagità e sadismo. Nelle parti di fianco un complimento sentito va alla simpatica e disinvolta interpretazione del Sagrestano da parte di Angelo Nardinocchi, anche per una buona caratterizzazione del timbro vocale di questo ruolo. L’Angelotti di Choi Seung Pil merita un elogio per la bella voce e per il buon senso della scena. Anche Mario Bolognesi (Spoletta) e Francesco Musino (Sciarrone) hanno centrato bene la parte dei “segugi” al servizio della prepotenza di Scarpia, con una dizione del testo molto ben articolata. Cito anche la buona presenza scenica di Massimiliano Damato nella parte del carceriere. Bella e precisa la voce di Eleonora Ronconi nella parte del pastorello all’inizio del terzo atto. Brave tutte le comparse che, in questa regia, hanno avuto molto lavoro da fare e sono state molto ben dirette. E un altro sentito elogio generale all’insieme dei tecnici e di tutti quanti dietro le quinte fanno funzionare con precisione ed efficienza gli spettacoli del Festival.