“Turandot” al Regio

Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2013-14
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri di Giuseppe Adami e Renato Simoni dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot  JOHANNA RUSANEN
Il principe ignoto (Calaf)  ROBERTO ARONICA
Liù  CARMEN GIANNATTASAIO
Timur  GIACOMO PRESTIA
L’imperatore Altoum  ANTONELLO CERON
Ping DONATO DI GIOIA
Pang  LUCA CASALIN
Pong  SAVERIO FIORE
Un mandarino  RYAN MILSTEAD
Il principe di Persia  DARIO PROLA
Prima ancella  EUGENIA BRAYNOVA
Seconda ancella   MANUELA GIACOMINI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore  Pinchas Steinberg
Maestro del coro  Claudio Fenoglio
Regia Giuliano Montaldo
Scene Luciano Ricceri
Costumi  Elisabetta Montaldo
Coreografie Giovanni Di Cicco
Luci  Andrea Anfossi
Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Torino 16 febbraio 2013

La stagione lirica del Regio di Torino prosegue nel segno di una scelta strategica di riduzione dei costi per gli allestimenti senza andare troppo a discapito della qualità. Dopo la ripresa di alcune produzioni realizzate negli scorsi anni tocca ora a questa “Turandot” prodotta dal Carlo Felice di Genova ed allestita per la prima volta a Torino.
Scelta apprezzabile visto che l’allestimento – curato per la regia Giuliano Montaldo, per le scene da Luciano Ricceri e per i costumi da Elisabetta Montaldo – conferma pienamente la sua efficacia nonostante gli anni trascorsi dalla sua ideazione. L’impianto scenico è ad un tempo semplice e fastoso, una duplice fila di colonne decorate con bassorilievi di draghi e di altri motivi tradizionali cinesi incornicia un’ampia scalinata a due rampe interrotte da piano intermedio e sormontate da un arco in pietra. La struttura ha nel medesimo tempo funzioni architettoniche e simboliche definendo visivamente la stratificazione sociale del paese: il popolo in basso, la corte al centro e in alto l’Imperatore con il suo ridotto seguito, collocato come un’icona nell’arco e nel I atto Turandot che nel medesimo punto compie la sua silente epifania. Alle spalle della struttura lo spazio vuoto del cielo viene animato da suggestive proiezioni atmosferiche come il sorgere della luna o i primi riverberi del sole all’alba; qualora la vicenda richieda ambienti più raccolti come nella scena dei ministri questi erano ottenuti con elementi mobili, pareti divisorie decorate con leggeri paesaggi orientali.

I costumi richiamano una Cina arcaica e magica, non chiaramente connotata in una precisa fase storica anche se più diretti sembravano i richiami al periodo Tang, quello del Secondo Impero e dell’apertura verso il mondo esterno. A quel periodo richiamano i costumi sfarzosi ma ancora semplici come foggia e privi dello sfrenato colorismo dei periodi successivi, le elaborate acconciature e gli abiti dal taglio elegante delle dame di corte simili a quelli delle statuette funerarie del periodo caratterizzati da linee sinuose e aderenti al corpo e da ampie maniche con funzione decorativa o l’insolita caratterizzazione di Pu Tin Pao la cui lunga e incolta barba nera lo caratterizza subito come uno straniero, uno di quegli occidentali – centrasiatici o iranici – che compaiono di frequenza nella pittura Tang con il loro portato di esotismo barbarico.
La regia di Montaldo lavora per piccoli tocchi, per dettagli in cui si riconosce la mano del grande uomo di cinema attendo alle emozioni e agli stati d’animo. Di grande efficacia il gioco di sguardi che precede la soluzione dell’ultimo indovinello con gli occhi di Turandot e Calaf che si fissano per un attimo finché la principessa come atterrita si scosta incapace di reggerne il confronto riuscendo a rendere così visivamente palese quella “luce degli eroi”, quella “superba certezza” su cui essa tornerà nel duetto finale. E come non notare la profonda, commovente verità del momento in Calaf guida dolcemente la mano del padre cieco a quella di Liù ormai morta per iniziare il viaggio comune nella “notte che non ha mattino”.

Sul piano visivo la componente meno convincente risultavano quindi le coreografie di Giovanni Di Cicco spesso troppo invasive con il loro continuo ipercinetismo e la loro profusione di figuranti che in alcuni punti tendevano quasi a distrarre lo spettatore.   La tenuta musicale era affidata ad un maestro di assoluta esperienza come Pinchas Steinberg, grande conoscitore della musica di Puccini. Il direttore statunitense offre della partitura una lettura fortemente personale e di grande coerenza; il maestro americano vede in “Turandot” un’opera prettamente novecentesca e tende ad evidenziare i tratti più moderni della scrittura pucciniana, quelli che l’avvicinano alle coeve sperimentazioni mitteleuropee quali la forza dell’andamento ritmico – particolarmente significativo il peso dato alle percussioni nella lettura di Steinberg – la cura degli impasti timbrici, spesso di estrema originalità nel loro ricercare suggestioni esotiche ed arcane; la dimensione quasi meccanica di alcuni momenti come quelli dei ministri anche a scapito di una maggior cantabilità, di una maggior propensione all’abbandono melodico che pure la musica di Puccini tende a suggerire in più punti mentre sul piano drammaturgico si nota una propensione per tempi tesissimi, per un passo teatrale implacabile e per un’imponenza dell’architettura musicale di portata quasi wagneriana. Una visione quindi molto coerente, forse non naturalmente vicina al gusto italiano ma non priva di interesse nel suo richiamarsi ad una specifica tradizione esecutiva che trova il più evidente precedente nella storica incisione di Eric Leinsdorf, non a caso un figlio della cultura musicale mitteleuropea trasferito negli Stati Uniti ovvero del medesimo retroterra culturale in cui si inserisce la formazione di Pinchas Steinberg.
 Il cast – pur non esente da pecche – si è mostrato comunque all’altezza delle richieste e ha fornito una convincente prestazione, specie tenendo conto della scarsità di voci drammatiche attualmente presenti sulla scena. Subentrata all’originariamente prevista Lisa Lindström la finlandese Johanna Rusanen è sicuramente al limite come Turandot. La voce non sembra quella di un autentico soprano drammatico quanto piuttosto quella di un lirico corposo quale si prevede nel repertorio wagneriano per parti come Siegliende e ovviamente tende a faticare nei passaggi più scopertamente drammatici previsti da scrittura pucciniana inoltre il settore acuto non è sicurissimo e la voce tende a trascendere nell’urlo, difficoltà che sono risultate palesi soprattutto nella grande scena d’entrata mentre nel prosieguo della recita la voce si è scaldata e l’emissione è diventata più rotonda e meno forzata permettendole di portare a casa con una certa sicurezza il duetto finale. Va per altro riconosciuto che la Rusanen dispone di una voce ampia e sonora, specie nel registro centrale ricco di corpo ed emerge con sicurezza sull’imponente massa orchestrale così come riuscita è la scelta di giocare sul piano espressivo sfruttando la natura più lirica della voce per tratteggiare una Turandot sostanzialmente fragile, la cui freddezza sembra derivare dalla paura per il mondo esterno e per l’universo maschile. Una prova quindi più che accettabile specie considerando la scarsità di autentici soprani drammatici e le vicissitudini che hanno portato alla sostituzione.

Apprezzabile la prova di Roberto Aronica coma Calaf, il tenore romano dispone di una voce naturalmente bella per timbro e colore, ampia, sonora e con notevole proiezione secondo la miglior tradizione tenorile italiana capace di conquistare subito il pubblico. Di contro si nota un’eccessiva tendenza ad aprire troppo i suoni così come a spingere troppo negli acuti – cosa per altro non necessaria essendo naturalmente già ricchi di suono – con il rischio di giungervi già stanco come nel caso del Si naturale di “Nessun dorma” che avrebbe potuto essere tenuto per maggior tempo. In ogni caso la prestazione va considerata positivamente specie nei momenti più lirici e congeniali ai suoi mezzi vocali ma viene risolto con sicurezza anche del duetto di Alfano, forse il passo meno confacente ai suoi mezzi vocali.
Carmen Giannattassio è una buona Liù, risolta con proprietà sul veramente musicale. La voce del soprano napoletano è di autentico soprano lirico ma dotata di un buon corpo e di efficace proiezione, la linea di canto è curata e l’emissione morbida e rotonda; il timbro se non bellissimo è piacevole anche se manca della giovanile luminosità che dovrebbe caratterizzare Liù. Scenicamente perfetta per il ruolo della giovane schiava si muove in scena con proprietà e convinzione mentre nel fraseggio si sarebbe preferito maggior approfondimento ed un gioco di colori più variato. Giacomo Prestia è un Timur vocalmente rilevante e di accento autorevole capace di autentica commozione nella scena della morte di Liù. Il timbro decisamente senile di Antonello Ceron non è improprio per l’imperatore Altoum ma la voce è decisamente troppo flebile. Nel terzetto dei ministri il Ping di Donato di Gioia mostra un buon materiale vocale ma non sempre composto mentre pienamente riuscita la prova dei due tenori Luca Casalin (Pang) e Saverio Fiore (Pong) puntuali nel canto e ben centrati sul piano espressivo. Completavano il cast Ryan Milstead (Un mandarino), Eugenia Braynova (Prima ancella), Manuela Giacomini (Seconda ancella) e Dario Prola (Il principe di Persia). Il coro diretto da Claudio Fenoglio particolarmente impegnato in quest’opera e messo in particolare evidenza dalla direzione di Steinberg si mostra pienamente all’altezza delle richieste confermandosi una delle compagini di vertice della scena italiana. Teatro gremito e convinto successo per tutti gli interpreti.