Wayne McGregor | Random Dance, “Far”

Brescia, Teatro Grande, Stagione di Danza 2015
Wayne McGregor | Random Dance
“FAR”
Ideazione e direzione Wayne McGregor
Coreografia Wayne McGregor
in collaborazione con i danzatori
Luci Lucy Carter
Scene rAndom International
Costumi Moritz Junge
Musica originale Ben Frost
Brescia, 5 febbraio 2015
Ormai chi va a vedere un balletto di McGregor, va a vedere McGregor: una sua lectio magistralis, a prescindere da quale ricerca scientifico-espressiva egli abbia tratto la sua ultima coreografia. A McGregor piace indurre i suoi spettatori a sfidare se stessi, ché sappiano sviluppare la competenza di osservatori e che arrivino ad inferire sui significati della sua danza concettuale. Quindi, sapere che McGregor ha studiato i manuali di anatomia del XVIII sec., dove ci sono riferimenti alle leve del corpo umano, non pregiudica il vedere i suoi danzatori, con i quali da sempre cofirma le coreografie, improvvisare. La cultura (quel che abbiamo letto e studiato) si apprezza da chi la sa usare ragionevolmente, da chi se ne compiace e ne sa generare a sua volta dell’altra. FAR è un’espressione magistrale, ossia una proporzione matematica, dove l’incognita è il pensiero del corpo, assumendo che quello della mente è il pensiero razionale. Infatti si sa che questo coreografo inglese, oggi un’istituzione (investito del titolo di “Commander of the Order of the British Empire”), è un fanatico di robotica tanto che da anni si avvale di software per far riprodurre nuovi e inesplorati movimenti ai sui ballerini, affinché possano arrivare a pensare con il corpo. Corpi fluttuanti, dinoccolati, corpi indisciplinati (come dice McGregor), ovvero figure improvvisate, anche se il coreografo afferma che questi movimenti siano la risultante di regole matematiche elaborate informaticamente. A McGregor piace associare il trauma fisico (le posture distorte e innaturali come la camminata mani ai fianchi, fianchi che ondeggiano di lato e avanti), al trauma emotivo. Ecco che l’incognita sarebbe risolta: il pensiero del corpo è il pensiero emotivo. FAR è un prodigo di scene, ognuna col proprio background sonoro; luoghi dove accadono incontri tra due individui e di gruppo, sotto a un pannello rettangolare sospeso: un’opera d’arte cinetica. Questo oggetto, che concettualmente richiama le invenzioni luminose di Julio Le Parc, è deus ex machina che dà soluzione di continuità diacronica ed è personaggio risolutivo delle vicende narrate perché i suoi impulsi luminosi sono parole, come lo sono i suoni che sentiamo, che sembrano provenire da un ipotetico postelegrafo. Luci e suoni costituiscono una diegesi connettiva che fa tornare d’un tratto in mente un bellissimo momento del film di Spielberg, “Racconti ravvicinati del terzo tipo”, un classico esempio di estetica del cinema. In questa scena gli umani instaurano un dialogo con gli alieni attraverso la riproduzione di suoni in sincronia con l’accendersi e spegnersi delle luci dell’astronave (Sol-La-Fa-Fa-Do). In FAR, sembra proprio che il movimento delle luci del pannello sia la trasmissione di un codice agli astanti e che questi si comportino di conseguenza. Infatti le figure si toccano gli arti come gli elettrodi si attaccano al corpo, per misurarne i valori da trasmettere all’elaboratore che a sua volta restituisce il compito, quello di metterli in connessione. Questo “monolito orizzontale”, che anche per imponenza scenica richiama ancora il cinema, questa volta quello di Kubrik, funge anche da contatore: un gigantesco cronografo digitale i cui numeri, dapprima progrediscono per poi decrescere. Episodi dello spettacolo che rimandano in parallelo ad un’altra dicotomia, quella microscopio telescopio, soprattutto quando assistiamo alle coreografie di gruppo in cui i ballerini si chiudono per mano in cerchio come rappresentazione dell’anello molecolare. FAR è psichedelia perché nella dimensione di una realtà aumentata, invita lo spettatore a espandere la coscienza e lo invita a intuizioni sensoriali. FAR è affabulazione perché McGregor, dopo tutte le sue manie matematiche, è un cinesteta affabulatore e lo si nota quando, alla fine, ci racconta una storia. Non si sa, ma quello che si intuisce è la volontà di rappresentarci un evento. C’è una coppia che sullo sfondo si mette a parlare, mentre una terza figura li guarda seduta, spalle al pubblico. Nel frattempo altri danzatori si avvicendano in duetti, quindi, prima del calar del sipario, una ragazza viene abbandonata distesa per terra, come senza vita. Quella che rimane è la bella sensazione di aver visto le varie scene di una vicenda, narrate nello stesso momento. Una tecnica narrativa già utilizzata da alcuni pittori: uno fra tanti, il Filippo Lippi con il tondo con gli episodi della vita di Sant’Anna, agli Uffizi. Foto Ravi Deepres