“The rake’s progress” al Teatro La Fenice di Venezia

Teatro La Fenice, Stagione lirica 2013-2014
“THE RAKE’S PROGRESS”
Libretto di W. H. Auden e Chester Kallman, ispirato all’omonimo ciclo pittorico di William Hogarth.
Musica di Igor Stravinskij
Trulove MICHAEL LEIBUNDGUT
Anne CARMELA REMIGIO
Tom Rakewell JUAN FRANCISCO GATELL
Nick Shadow ALEX ESPOSITO
Mother Goose SILVIA REGAZZO
Baba la Turca NATASHA PETRINSKY
Sellem MARCELLO NARDIS
Il guardiano del manicomio MATTEO FERRARA
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Diego Matheuz
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Oper Leipzig nell’ambito del festival “Lo spirito della musica di Venezia”
Venezia, 3 luglio 2014

The Rake’s Progress di Igor Stravinskij è in cartellone alla Fenice nell’ambito del Festival Lo spirito della musica di Venezia, che si svolgerà fino al 12 agosto 2014. L’opera – com’è noto – è legata alla Città dei Dogi per il fatto che l’autore scelse per la sua prima rappresentazione un teatro di proporzioni ridotte, ma di grande tradizione qual è, appunto, il Tempio della Lirica veneziano. Era l’11 settembre 1951, quando il Rake’s Progress venne rappresentato sotto la direzione musicale dello stesso Stravinskij: regista Carl Ebert e, nel cast, nomi di spicco come Raffaele Ariè, Elisabeth Schwarzkopf, Robert Rounseville, Otakar Kraus e Jennie Tourel. Il lavoro fu accolto trionfalmente dal pubblico, mentre la critica si divise. Erano anni di intenso, anche aspro, dibattito sulla musica, e sul multiforme compositore russo gravava il giudizio di Adorno, che in Die Philosophie der Neue Musik (1949) ne fa un gendarme della restaurazione, contrapposto all’avanguardia impersonata da Schoenberg. Ci vorrà qualche anno prima che questa antinomia si ricomponga o addirittura si inverta, in particolare grazie all’intervento di Pierre Boulez con il suoi decisivi saggi Schoenberg est mort e Stravinsky demeure, dove, già all’inizio degli anni Cinquanta, contraddice le argomentazioni del filosofo della Scuola di Francoforte. Non è questa la sede per addentrarci in simili speculazioni, sta di fatto che lo stesso Rake’s Progress viene da alcuni considerato – ancora oggi – un puro, quanto sterile, esercizio di stile, anzi di stili, per quanto di raffinata fattura, oppure da altri un’opera che ha in sé i tratti di una visione originale della modernità. E una diversità di vedute risulta chiara, come abbiamo detto, anche dalle recensioni critiche alla prima assoluta veneziana, come documenta il saggio di Adriana Guarnieri Corazzol contenuto nel (come sempre) pregevole programma di sala, in cui si dimostra   quanto The Rake’s Progress abbia sollecitato, in occasione del suo debutto, altrettanta ripulsa (Vigolo), o diffidenza (Zafred) o riprovazione e quasi disgusto (Celli) per le sue scelte stilistiche quanto ammirazione (Zanetti) o comprensione (Mila) o affettuosa adesione (Montale) a quelle stesse scelte.
Stravinskij aveva iniziato a progettare un’opera in inglese fin dal 1939, quando si era stabilito negli Stati Uniti. Lo spunto per realizzarla gli si presentò nel maggio 1947, dopo aver visitato la mostra su William Hogarth, allestita presso il Chicago Art Institute, da cui era uscito impressionato dalla grande teatralità espressa dalla serie di incisioni, tratte dal ciclo di otto dipinti, intitolato The Rake’s Progress (1732-33). Il compositore si mise al lavoro dopo aver scelto come modello la struttura drammaturgico-musicale dell’opera comica del Settecento secondo la visione di Mozart e Da Ponte – con particolare riguardo a Così fan tutte – e trovato il librettista ideale in Wystan Hugh Auden, forse il poeta inglese più rappresentativo della generazione degli anni Trenta del Novecento, che – non a caso – riteneva come cifra peculiare degli artisti moderni il non essere “più sostenuti dalla tradizione senza esserne consapevoli”. Con Auden collaborò anche l’amico Chester Kallman; ne nacque un testo poetico ricchissimo di citazioni, allusioni, riferimenti letterari e culturali, cui la musica di Stravinskij fece corrispondere una fitta rete di richiami: oltre a Mozart, Händel e Gluck, Schubert e Weber, Rossini e Donizetti, Verdi e Cajkovskij. La stessa collaudatissima coppia avrebbe successivamente firmato l’altrettanto splendido libretto di Elegy for Young Lovers di Henze, recentemente apparsa alla Fenice. Che dire del Rake’s Progress dopo aver assistito alla recente rappresentazione veneziana? Confessiamo di aver confermato un giudizio non del tutto positivo sul lavoro stravinskiano, pur ammirandone gli innegabili pregi, riassumibili nella collaudata maestria nell’uso del ritmo, che diventa un parametro musicale di fondamentale rilievo, nonché dell’armonia, spesso volutamente “sporca”, a suggerire una sorta di tempo misto tra presente e passato e creare effetti di estraniamento. Nondimeno ci sembra che, in ultima analisi, nella partitura prevalga un atteggiamento troppo freddo e disincantato, e dunque tutto si risolve in una prova di bravura, di scaltrito manierismo o eclettismo, per quanto, come si è detto, frutto di un autore di genio. Merita precisare che questa nostra impressione può essere stata accentuata dalla direzione del pur talentuoso Diego Matheuz, il quale ha impresso all’esecuzione il suo ben noto vitalismo dinamico e ritmico, a scapito di un’interpretazione che mettesse nel debito risalto i momenti di adombrato lirismo e di sommessa meditazione. Certamente il maestro venezuelano ha dominato con sicurezza la partitura, offrendoci un’esecuzione precisa e rigorosa dal punto di vista tecnico, sorretto da un’orchestra in ottima forma, scattante e affiatata, nonché da un cast altrettanto in sintonia con le intenzioni direttoriali. Tuttavia anche il confronto con un breve frammento, recentemente ritrovato, della registrazione-audio della prima assoluta diretta da Stravinskij, conferma che l’interpretazione dell’opera – come quella offerta dallo stesso autore – dovrebbe essere più attenta alle sfumature e meno pirotecnica.
In ogni caso, la regia di Damiano Michieletto – che continua la sua collaborazione col Teatro La Fenice, dopo la sua fortunata, ma anche discussa, Trilogia dapontiana – ha contribuito ad esasperare gli aspetti più manieristici e d’effetto, che si possono trarre da questa partitura, creando, ad esempio, nella seconda scena del primo atto (quella che si svolge nel bordello di Mother Goose) una situazione degna del peggior film di Tinto Brass, in cui le coriste e i coristi mimavano compulsivamente varie posizioni del Kamasutra sul fondo di una piscina prosciugata, coperto di monete d’oro, mentre in alto brillavano, variamente colorate, scritte luminose indicanti i sette peccati capitali. È un po’ come chi cerca la facile risata raccontando una barzelletta sporca … Forse a teatro ci vuol altro per essere veramente creativi. D’effetto anche il sipario costituito da lunghe fettucce argentate su cui si riflettono luci generalmente bianche o rosse, peccato che a volte queste luci fossero fastidiose, troppo intense per l’occhio. Più gradevole la prima scena del primo atto (quella del giardino e del patto demoniaco), dove Tom, ad esempio, è simpaticamente indaffarato a pulire un’automobile anni Settanta e Trulove si mette placidamente a pranzare. O nel complesso le tre scene dell’atto secondo, in particolare l’ultima, in cui gli animali e gli uccelli impagliati, previsti dal libretto, diventano salvagenti di quella forma (ancora qualcosa di legato alla piscina), mentre due pescecani elettronici di plastica volteggiano nell’aria. Ancora d’effetto, seppure abbastanza scontato nel quadro di questo allestimento, la scena del manicomio, in cui la piscina del postribolo, più profonda e cosparsa di immondizie, è lo spazio in cui si aggirano i malati, tra cui Tom, che – privato da Shadow della ragione – si crede Adone. Gradevoli i costumi di foggia più o meno contemporanea, alcuni dei quali molto colorati, in linea con le scene in generale.
Quanto al cast, Alex Esposito ci ha proposto un Nick Shadow di grande carattere, tenebroso e mefistofelico, grazie a una voce di puro metallo brunito e a una notevole presenza scenica. Analogamente l’argentino Juan Francisco Gatell ha sfoggiato una voce di tenore leggero, dal timbro giovane e virile, regalandoci un Tom Rakewell credibile ed espressivo nella varie situazioni emotive che attraversa: l’amore, il piacere, la filantropia, la follia. Gli hanno corrisposto un’Anne – per la voce e il gesto di Carmela Remigio – altrettanto convincente e toccante ad esprimere le sue gioie o le sue pene d’amore, e un Trulove (Michael Leibundgut) paterno e saggio di sicura professionalità. Voce timbrata e potente e gestualità espressiva hanno sorretto anche Natasha Petrinsky, una Baba vestita di pelle dalla sgangherata (come dev’essere) sensualità. Irresistibile Marcello Nardis, quale Sellem, il banditore d’asta nella movimentata prima scena dell’atto terzo, dove ha dimostrato verve e adeguati mezzi vocali. Buone le prestazioni di Silvia Regazzo una Mother Goose insinuante dai tratti di bionda esplosiva, e di Matteo Ferrara nel ruolo del guardiano del manicomio. Scroscianti applausi per tutti, ed in particolare per il maestro Claudio Marino Moretti, che ha saputo istruire egregiamente il coro, impegnato in pagine – e situazioni sceniche (!) – tutt’altro che facili.