Torino, Teatro Regio: “Carmen” (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2015/2016
“CARMEN”

Opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dall’omonima novella di Prosper Mérimée.
Musica di Georges Bizet   
Carmen VERONICA SIMEONI
Don José ROBERTO ARONICA
Micaëla MARIANGELA SICILIA
Escamillo LUCA GRASSI
Frasquita ANNA MARIA SARRA
Mercédès LORENA SCARLATA RIZZO
Il Dancaïre PAOLO MARIA ORECCHIA
Il Remendado LUCA CASALIN
Moralès RICARDO CRAMPTON
Zuniga LUCA TITTOTO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
Direttore Asher Fisch
Maestro dei Cori Claudio Fenoglio
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Su Bühler
Luci Martin Gebhardt riprese da Andrea Anfossi
Allestimento Opernhaus Zürich
Torino, 23 giugno 2016    
Dopo l’allestimento curato da Calixto Bieito nel 2012, Carmen torna al Regio di Torino in una regia, altrettanto moderna ma molto meno provocante, importata dall’Opernhaus di Zurigo. La vicenda è ambientata in un Paese che ricorda l’Italia meridionale dei primi decenni del dopoguerra, tra Carabinieri, contrabbandieri e donne vestite in colori scuri. La scenografia (firmata da Volker Hintermeier), tendenzialmente minimale, dopo due atti di una genericità impressionante – compreso il banale televisore da bar che trasmette una partita di calcio –, riesce a definire con efficacia gli ambienti degli atti finali, con il suggestivo notturno montano del terzo quadro e l’abbacinante solarità mediterranea dell’ultimo, dominato da un olivo secolare. Ciò che distingue positivamente la regia di Matthias Hartmann è il lavoro sui personaggi, evidente fin dall’inizio, pur nella discutibilità di alcune scelte – come quella di prevedere un abbraccio idillico tra la protagonista e José al termine del II atto, quando la loro relazione, sia pure appena iniziata, è in realtà già incrinata a causa dei loro differenti caratteri –; ma portato a termine con maggiore evidenza e vigore negli atti finali, e in particolare nell’ultimo duetto, dove Carmen lascia trasparire con chiarezza l’attrazione che prova per José, col quale sarebbe tentata di riconciliarsi, salvo trattenersene e morire per essere fedele, più che ai propri reali desideri, al proprio credo libertario. Apprezzabilissima è la scelta di eseguire a sipario chiuso preludio e intermezzi, piccoli capolavori che introducono al carattere dei singoli atti, valorizzati nella loro funzione e nei loro tratti ritmico-melodici (una menzione particolare merita il primo flauto, protagonista del preludio al III atto, per la sua grazia cristallina che così bene introduce alla purezza dell’aria delle montagne nelle quali la scena è ambientata). E la cura della concertazione, affidata al direttore Asher Fisch, si rivela sempre alta, attenta a sottolineare ora l’impeto travolgente dell’entusiasmo e della passione, ora l’ironia e la stasi lirica. Il Coro, nella sua doppia formazione (a quella ordinaria si aggiungono le voci bianche) sotto l’unica guida di Claudio Fenoglio, fornisce una delle più coinvolgenti prove di stagione nei numeri in cui è protagonista.
Gli interpreti del cosiddetto “secondo cast” costituiscono una compagine ben assortita che non solo si colloca su un livello qualitativo complessivamente buono, ma presenta anche elementi di originalità rispetto alla lettura dell’opera di Bizet cui si è soliti prestare orecchio. E, al di là del giudicare se questa originalità costituisca un disvelamento o un tradimento dello spirito della partitura, è parere di chi scrive che un’interpretazione inconsueta, se condotta con rigore musicale, sia pur sempre un arricchimento per l’ascoltatore. Originali, in particolare, sono le due protagoniste femminili: il mezzosoprano Veronica Simeoni, infatti, non sfoggia quei colori, quelle risonanze carnali che solitamente si associano a Carmen, e tratteggia il ritratto di una donna ironica dal portamento elegante, più figlia della buona società ribelle alle sue convenzioni che sigaraia di origine zingara. La sua “Chanson bohème” si distingue per il crescendo che ne esalta il vitalismo ritmico senza mai rompere il rigore della costruzione musicale; e i suoi confronti con gli altri personaggi – il duetto con José nel II atto, da lei dominato, e il terzetto delle carte, nel quale la figura severa e fatalistica di Carmen si contrappone alla spensieratezza delle amiche – mettono in luce una protagonista il cui fascino non deriva da una procacità esibita, ma dal carisma che promana da un carattere forte. Quanto al soprano Mariangela Sicilia, la sua Micaëla, affidata a una voce di temperamento incisivo, capace di acuti di forza, non è sicuramente la figura angelicata e un po’ insipida che si è abituati a pensare, ma una donna di carattere la cui dolcezza è elemento positivo di una personalità risoluta, e non certo segnale di assenza di personalità; una lettura sicuramente coerente con la vicenda di una ragazza capace di intrufolarsi in un covo di contrabbandieri per salvare l’uomo che ama. Le amiche di Carmen, Frasquita e Mercédès (interpretate, rispettivamente, dal soprano Anna Maria Sarra e dal mezzosoprano Lorena Scarlata Rizzo) risultano appropriate ai ruoli sbarazzini. Sul fronte maschile, il tenore Roberto Aronica ha ormai sviluppato una vocalità di taglio lirico-spinto, e con essa affronta il ruolo di Don José, del quale vengono esaltati lo slancio virile e il tormento interiore,  a scapito di qualche nuance, che avrebbe giovato, specialmente, nel secondo atto. Il personaggio si realizza così in particolare negli atti finali, dove è sbalzato con perspicuità il carattere dell’uomo egocentrico e possessivo che diviene violento per non saper accettare il rifiuto da parte della donna desiderata. Il baritono Luca Grassi, non disponendo di un timbro particolarmente ammaliante, risulta appropriato ad incarnare la figura schietta del torero Escamillo. Tra le seconde parti nessuno sfigura, e si distingue positivamente il baritono Paolo Maria Orecchia nel ruolo del contrabbandiere Dancaïre. Concludendo con alcune osservazioni circa le scelte esecutive, occorre innanzi tutto mettere in luce come il genere dell’opéra-comique si prestasse, fin dalla sua nascita, a una certa flessibilità agli adattamenti che si possono rendere opportuni di allestimento in allestimento, per cui non si deve certo considerare scandaloso ogni piccolo taglio. Oggi è tornata prassi comune l’esecuzione della versione originale con dialoghi parlati, e questa scelta è stata opportunamente fatta anche a Torino; tuttavia, i dialoghi vengono solitamente così falcidiati da rendere l’opera una pura successione di numeri musicali, collegati da qualche segmento di conversazione reso necessario alla comprensione degli eventi, tradendo, in un certo senso, la natura stessa del genere musicale. Qualche frammento di dialogo, solitamente omesso e ascoltato al Regio, ha rivelato come le parti parlate siano miniere di situazioni che perfettamente si integrano nell’opera, e che meriterebbe ripristinare per intero. Chiaramente, occorrerebbe disporre di un cast di cantanti capaci di recitare agevolmente in prosa francese, e di un pubblico pronto a riscoprire nella sua interezza una tipologia di spettacolo cui non è più abituato, almeno sui palcoscenici lirici; ma il pubblico, facilmente, dopo un primo momento di straniamento apprezzerebbe. Quel che sarebbe più urgente reintegrare sono i passi della partitura musicale che di tradizione vengono omessi: la pantomima del I atto, la seconda parte del duetto tra Escamillo e José, e la scena corale che apre l’ultimo atto; in quest’ultima è previsto anche un intervento di Zuniga che obbligherebbe i registi a ripensare quella che ormai è diventata una prassi ingiustificata – cui Hartmann non ha fatto eccezione –, e cioè la messa in scena dell’uccisione del tenente dei dragoni nel finale II, laddove dovrebbe essere soltanto tenuto in custodia dai contrabbandieri.