Torino, Teatro Regio: “L’elisir d’amore” (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio – Stagione d’Opera 2018-19
L’ELISIR D’AMORE
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Felice Romani, da “Le philtre” di Eugène Scribe.
Musica di Gaetano Donizetti
Adina LUCREZIA DREI
Nemorino ÁLVARO ZAMBRANO
Il dottor Dulcamara SIMÓN ORFILA
Belcore ENRICO MARRUCCI
Giannetta ASHLEY MILANESE
L’assistente del dottor Dulcamara MARIO BRANCACCIO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore 
 Michele Gamba
Maestro del Coro Andrea Secchi
Maestro al fortepianoLuca Brancaleon
Regia Fabio Sparvoli
Scene Saverio Santoliquido
Costumi Alessandra Torella
Luci Andrea Anfossi
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 16 novembre 2018
Critici senza dubbio più in vista ed autorevoli di chi scrive questa recensione si sono spesso accaniti contro alcuni titoli ormai fin troppo popolari, che hanno decisamente soppiantato loro fratelli meno easy listening, ma di qualità chiaramente superiore: “L’elisir d’amore“ è, non del tutto a torto, considerata da molti la tomba di Donizetti, un titolo in cui il grande pubblico si contenta di esaurire il genio operistico del bergamasco (un po’ quello che “Il barbiere di Siviglia” è per il recentemente celebrato Rossini). Eppure, per capire esattamente il significato e soprattutto i limiti di certe asserzioni, occorre presenziare alle repliche, che una volta si definivano “popolari”, di tali opere: è quanto è accaduto al sottoscritto questa sera, e mi ha chiarito molti punti a riguardo. Occorre partire da un dato lapalissiano: “L’elisir d’amore” è, in sé, un opera tanto perfetta nel suo genere, e nel suo stile, da essere diventata un paradigma, un patrimonio dell’immaginario collettivo. Non mi riferisco solo alla vera idolatria che il pubblico di tutto il mondo nutre per la celeberrima “furtiva lagrima”, ma anche per la proposizione di certi tipi sentimentali, grazie ai quali la commedia contemporanea si è potuta emancipare dalle stilizzazioni delle maschere. “L’elisir” è popolare perché, in fondo, ha plasmato il popolo, e non perché questo, dei gusti senza dubbio un po’ grossier, ne abbia corrotto la natura magnifica e, per molti aspetti, innovatrice. Essa è un’opera che anche il più fine intellettuale, come il critico più blasé, non può stancarsi di ascoltare mai, poiché, proprio agli orecchi più preparati, essa porgerà sempre qualcosa di cui stupirsi e compiacersi – esattamente come “Il barbiere”, “Traviata”, o “Butterfly”. Coloro che più frequentano i teatri d’opera, semmai, possono stancarsi di vederla: certo un testo così frequentemente riproposto, in ogni parte del mondo, pone sfide sempre più ardue ai team creativi che vi si avvicinano. La regia di “Elisir” attualmente in scena al Regio di Torino, non può certo definirsi originale, men che meno innovativa: essa è però certamente corretta e rispettosa dell’anima del libretto, forse un filo troppo infantile, a scapito della non poca malizia di cui Felice Romani aveva neanche troppo reconditamente intriso la vicenda. D’altro canto, scegliere la via del bambolesco, del preadolescenziale, consente al regista Fabio Sparvoli di giocare molto sulla pochade, sull’equivoco, e di far così breccia anche nel pubblico più giovane – iniziativa, anche questa, certo non nuova, ma che sempre riscuote successo, come dimostra la presenza in sala di rumoreggianti scolaresche dai dieci ai diciotto anni. Qualunque fosse l’intento di questa scelta, essa funziona, caratterizzando bene tutti i personaggi (coro compreso), strappando risate ove possibile, sorrisi e qualche sospiro per la maggior parte del tempo. L’ambientazione è quella di certi film anni ’50, i “Pane, amore, e…“, o i “Don Camillo“, con buffi carabinieri d’altri tempi, gonne a campana e virtù rustiche a pioggia: in questo senso, non appaiono del tutto riuscite le scene di Saverio Santoliquido, un ordinario miscuglio di stereotipato e minimal, certo funzionale, ma non godibile; divertenti, invece, i costumi multicolori, dall’anima pop, curati da Alessandra Torella, in grado anche da soli di conferire dinamismo alla scena; appropriate le luci di Andrea Anfossi, con suggestivi controluce nelle scene più piene di pathos. Tutto è al servizio della storia, ma anche della partitura, com’è chiaro nella spassosissima performance del Coro femminile del secondo atto, vocalmente ben allenato e scenicamente rutilante; su questa china anche la buona concertazione del M° Michele Gamba (supportato al fortepiano dal Maestro Luca Brancaleon), ben sostenuta sia nelle tempistiche che nelle espressioni agogiche, dà ampio risalto ai legni e riesce ad accordare buca e scena senza difficoltà, seppur con qualche eccesso in sonorità. La compagnia di canto di questa replica chiaramente dimostra come spesso anche i “secondi cast” comprendano bei talenti già ben avviati. Accanto alla spumeggiante e vocalmente brillante Giannetta di Ashley Milanese,  il più scafato Enrico Marrucci, un Belcore gradasso al punto giusto e vocalmente corretto e morbido, assistiamo a due esibizioni degne d’interesse: in primis il Dulcamara di Simón Orfila, baritono dala linea di canto solida e fraseggio autorevole, che s’addice a un ciarlatano assuefatto a plagiare gli ingenui. L’Adina di Lucrezia Drei è la seconda nota felice della serata: come non ho mancato di far notare anche per la sua recente performance novarese, la cantante milanese è un soprano lirico-leggero piacevolissimo all’ascolto, dalle colorature precise e vibranti, e dal fraseggio fresco e spavaldo; i suoi momenti più alti probabilmente sono la cavatina “Della crudele Isotta” e lo spumeggiante duetto con Dulcamara del secondo atto “Quanto amore”. Ascoltando lei, come anche altri cantanti suoi coetanei emersi negli ultimi anni, si percepisce che stia crescendo, nel nostro Paese, una nuova generazione di interpreti musicalmente intelligenti, attorialmente pronti, vocalmente preparati, cui mi fa piacere che i teatri nostrani stiano dando spazio. A chiudere la buona compagnia di canto, Álvaro Zambrano sostituisce Santiago Ballerini (passato al primo cast) nella parte di Nemorino: come spesso accade in quest’opera, i tenori sembrano voler puntare tutto sulla famosa “ furtiva lagrima” , che Zambrano canta con intensità espressiva e buone intenzioni. Nel resto dell’opera non si può non rilevare come la sia pur musicale linea di canto di  Zambrano, non supplisce una vocalità non sempre pienamente a fuoco. Tuttavia l’energia scenica del tenore lo rende convincente. Nel complesso una bella serata serata (pur non perfetta),  per il pubblico, che dimostra piena soddisfazione agli applausi finali.