Napoli, Teatrino di Corte:”DonTrastullo”

Napoli, Teatrino di Corte di Palazzo Reale, Stagione Lirica del Teatro San Carlo 2o11 /2012
“DON TRASTULLO”
intermezzo comico di Niccolò Jommelli
Arsenia MARIANGELA SICILIA
Giambarone
DAVID FERRI DURA’
Don Trastullo
DOMENICO  COLAIANNI
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro San Carlo
Direttore Maurizio Agostini
Regia Riccardo Canessa
Scene e costumi Patrizia Balzerano
Napoli, 8 marzo 2012

Nuovo allestimento del Teatro di San Carlo Con un significativo attingere al “pozzo senza fondo” ( cit. Alfredo Parente) dell’opera buffa, il Massimo partenopeo e la Regione Campania con “il progetto Napoli” persistono nel proporre al pubblico opere della fecondissima scuola napoletana, aprendo le porte dello splendido teatrino di corte di Palazzo Reale, dopo Il Marito disperato di Cimarosa, all’ intermezzo buffo, Don Trastullo, di un altro celebre compositore aversano, Niccolò Jommelli. L’iniziativa è, sicuramente, degna di lode e rievoca, seppur con le dovute riserve, gli sforzi della prolifica gestione Di Costanzo, per quel che concerne la valorizzazione del repertorio settecentesco napoletano.
Il teatrino, restaurato e dotato di moderne attrezzature sceniche nel 1952, si presentò, proprio, come il luogo funzionale alla rinascita dei capolavori dell’opera buffa, infatti, lo stesso Don Trastullo vi fu rappresentato nel 1955, per l’unica volta, esclusa la seguente, assieme al Mercato di Malmantile di Cimarosa.
Ma, se pregevole resta l’iniziativa e la nobiltà degli intenti, difettosa appare la scelta performativa di questo Don Trastullo di Riccardo Canessa. Più che l’idea di base che sottende il disegno registico – qualora ce ne fosse stato uno – è l’allestimento in toto a peccare di qualche difettuccio di forma: come se l’intenzione, espressa dallo stesso Canessa, di voler stabilire un contatto con la Napoli cinematografica di Dino Risi e Nanni Loy non si trasformasse in una realtà scenica efficace, intensa, che, nonostante il cliché della forma, riuscisse
ad oltrepassare il muro del tempo trasferendo quei fondamentali significati universali, insiti in ogni opera, allo spettatore contemporaneo.
Benché l’idea di popolare di figuranti – oltre ai già muti Dorinella e Dattalo, servi di Arsenia previsti dal libretto – il vicolo napoletano variopinto, illuminato dal disegno luci di Mario D’Angiò, e ideato dalla pittrice Patrizia Balzerano, curatrice anche dei costumi, potrebbe essere da un punto di vista scenico interessante, da una prospettiva prettamente esecutiva, invece, fa qualche buco nell’acqua.
Ciò, è, forse, imputabile ad una cura registica pressapochista riservata ai figuranti stessi, che, molto spesso, nelle movenze e nei gesti hanno riportato alla memoria dello spettatore le tanto care recitine parrocchiali dell’oratorio. Una prassi recitativa che è parsa molto opinabile, soprattutto, nel Giambarone di David Ferri Durà che ha fornito una recitazione
debole, a tratti inutile, vuota, senza alcuno spessore drammatico, ridicolizzando, così, un personaggio già stereotipato di suo, che, invece, una regia diversamente oculata ed una sana interpretazione attoriale avrebbero potuto felicemente rendere moderno e fruibile. Nemmeno da un punto di vista vocale il giovane riesce a convincere; dotato di pochissima maschera e di un’ articolazione non sempre nitida ha costretto l’orchestra ad una sordina perenne e ad uno sforzo visivo per gli astanti nel seguire la trama dai libretti di
sala. Il Don Trastullo di Domenico Colaianni, fortunatamente, con un sospiro di sollievo del pubblico, regala grande dinamismo scenico, intensa comprensibilità, e notevole simpatia conferendo, così, il dovuto spessore comico ad un personaggio-tipo della Commedia dell’Arte dal cui stesso nome si evince la peculiarità caratteriale. Vocalmente il baritono barese, non ha alcuna sbavatura: sempre preciso, il suo è un suono pulito, chiaro, determinato e perfettamente articolato. L’arsenica fanciulla, la “stregaccia malandrina” alla quale, nella chiusa finale, il finto conte disfatto, assimila tutta le donne, è interpretata dal giovane soprano calabrese Mariangela Sicilia che si cimenta in una scrittura vocale sicuramente congeniale alla sua voce chiara, incisiva negli acuti, ma forse, ancora troppo debole nella zona centrale. Il volume della sua voce non oltrepassa la già esigua orchestra più che diretta, “tenuta sotto controllo” dal giovane direttore Maurizio Agostini.
Musicalmente, risulta molto suggestiva la condotta dell’oboe obbligato nella seconda sezione strumentale dell’intermezzo (la prima, d’apertura, è costituita da una sinfonia dall’Attilio Regolo voluta dal revisore critico Ivano Caiazza). Su un tappeto di bassi l’assolo si staglia armonioso e coinvolge emotivamente molto di più della voce del soprano fuori scena con cui concerta. Una rappresentazione che lascia un pubblico con l’applauso smorzato fra le mani, con un sorriso stinto sul viso e col rammarico più grande di essere riusciti a cogliere ben poco di quella sana, intensa, briosa, fondamentale ironia di cui la Napoli settecentesca dell’opera buffa era felicemente intrisa e di cui, oggi, si ha una disperata sete.