Venezia, Teatro “La Fenice”:”Il Trovatore”

Teatro La Fenice, Stagione lirica 1914-15
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti
Libretto di Salvadore Cammarano dal dramma El trovador di Antonio García Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il conte di luna ARTUR RUCÌNSKI
Leonora CARMEN GIANNATTASIO
Azucena VERONICA SIMEONI
Manrico GREGORY KUNDE
Ferrando ROBERTO TAGLIAVINI
Ines ELISA SAVINO
Ruiz DIONIGI D’OSTUNI
Un vecchio zingaro SALVATORE GIACALONE
Un messo BO SCHUNNESSON
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Lorenzo Mariani
Scene e costumi William Orlandi
Light designer Christian Pinaud
Allestimento del Teatro La Fenice
Venezia, 17 settembre 2014

Il Trovatore è tornato alla Fenice in un allestimento già proposto nel 2011, ma con un Cast per la maggior parte diverso; nuovo anche il direttore. Si tratta dell’opera, per molti versi straordinaria, che diede fama ad un Verdi appena uscito dagli “anni di galera”, segnalandolo come il più grande compositore italiano nel campo del teatro musicale (il che significava, all’epoca, il più grande compositore italiano tout court). Un’opera che non si finisce mai di scoprire e di valorizzare come merita, facendo piazza pulita di certi luoghi comuni: ad esempio quello secondo cui la trama sarebbe oscura. Chi conosce Verdi sa che non era certo tenero con i librettisti e che il suo senso del teatro non poteva accettare incongruenze o garbugli. In effetti, a ben guardare, il libretto che gli confezionò Salvatore Cammarano – lasciandolo peraltro incompiuto a causa della sua improvvisa scomparsa – è un modello di simmetria e di ordine, oltre a contenere un testo poetico tutt’altro che di routine. A questo proposito, cogliamo l’occasione per sottolineare il fatto che la politica intrapresa da qualche anno in qua dai responsabili del Teatro La Fenice, vale a dire riproporre con una certa frequenza titoli attinti dal repertorio più gradito al grande pubblico, si sta rivelando non solo e non tanto un mezzo efficace per richiamare acquirenti al botteghino (in tempi di magri finanziamenti statali), quanto invece un’occasione preziosa per approfondire la conoscenza di capolavori troppo spesso – come dicevamo – considerati con sufficienza, essendo magari penalizzati da tagli e, più in generale, da prassi esecutive, che ne hanno alterato l’aspetto originale. Il merito, ovviamente, va all’elevata qualità artistica, che caratterizza tali produzioni fenicee, come si è potuto constatare anche assistendo a questa riproposizione del Trovatore. La “tinta” notturna e lunare di quest’opera – la seconda della cosiddetta “trilogia popolare” verdiana, che apparve sulla scena il 19 gennaio 1853, all’incirca due anni dopo il Rigoletto e due mesi prima della Traviata – viene messa in evidenza dalla scenografia di William Orlandi (cui si devono anche i gradevoli costumi, ispirati a quelli dell’epoca in cui si svolge la vicenda), coadiuvato dalle luci di Christian Pinaud. Nella maggior parte delle scene campeggia sullo sfondo una smisurata disco luna di vario colore, a seconda dei momenti del dramma: argentea – ad esempio – a suggerire la “notte placida”, descritta da Leonora nella Cavatina, in cui la nobile fanciulla rivive con fervida emozione il momento dell’apparizione, quasi prodigiosa, del Trovatore; rossa come il fuoco – ancora in analogia con quanto avviene in palcoscenico – nella scena del bivacco dei gitani sui monti di Biscaglia, mentre Azucena rievoca il supplizio della madre, ingiustamente bruciata sul rogo per ordine del vecchio Conte di Luna, e l’infanticidio che ne seguì per sua stessa mano, gettando tra le fiamme, folle di vendetta, uno dei due rampolli del Conte (per poi rendersi conto di aver sacrificato per tragico errore il proprio figlio). Piuttosto ossequiosa verso la tradizione, nel complesso, la regia di Lorenzo Mariani, che peraltro si concede qualche variante: come avviene in apertura della scena con l’accampamento delle truppe del Conte di Luna presso Castellor, in cui l’inno militare viene intonato dai soldati senza che i medesimi siano impegnati nella solita marcetta.
Dal punto di vista musicale, il giovane direttore Daniele Rustioni si è confermato una delle bacchette più promettenti del momento. La sua lettura del capolavoro verdiano si è segnalata soprattutto per la capacità di trarre dalla partitura – supportato da un’orchestra in ottima forma – tutta la sua raffinatezza e ricchezza, anche dal punto di vista coloristico, facendo sentire, come si usa dire, “veramente tutto”. Meno condivisibile la scelta di tempi, talora un po’ troppo serrati, ma comunque senza mai trascurare, quando occorre, le opportune sottolineature espressive. Lodevole, inoltre, il rispetto del dettato verdiano, proponendo certe cabalette col Da capo, magari abbellito, nella linea di canto, da qualche sobria variazione, in ossequio con la prassi esecutiva ottocentesca.
Quanto al Cast, è appena il caso di ricordare che il debutto di Gregory Kunde, quale Manrico, era particolarmente atteso dal pubblico veneziano, che lo aveva già estremamente apprezzato nell’Otello di Verdi, uno dei due titoli della doppia inaugurazione, in occasione dell’anniversario insieme verdiano e wagneriano (oltre all’Otello venne proposto il Tristano) nel novembre del 2012. Anche in questa parte, che richiede doti di tenore lirico, ma prevede anche passaggi che esigono una notevole potenza di emissione, Kunde si è mostrato a suo agio, seppure questo ruolo – arduo banco di prova per un tenore – possa incutere qualche timore anche in un artista preparato e sicuro dal punto di vista vocale ed interpretativo qual è il cantante statunitense. Sfoggiando una perfetta padronanza dei propri mezzi vocali, Kunde ha saputo essere teneramente lirico in pagine indimenticabili (come “Deserto sulla terra”, “ Ah sì, ben mio, coll’essere”, “Ah, che la morte ognora” , “ Insano! … ed io quest’angelo”), dove ha brillato anche per l’eleganza del fraseggio. Così come ha affrontato con sicurezza e potenza la celeberrima cabaletta “Di quella pira” (ripetuta con qualche variazione), meritandosi una vera e propria ovazione; o nell’invettiva “Ha quest’infame l’amor venduto…”, resa con travolgente passione.
Altra mattatrice della serata: Veronica Simeoni nei panni di Azucena, il personaggio in un primo momento designato da Verdi, quale protagonista dell’opera, che avrebbe dovuto intitolarsi La gitana. La cantante ha sfoggiato una voce fresca, scevra da certe sonorità troppo cupe, che abbastanza spesso si sentono, conferendo alla zingara un’aura eccessivamente sinistra, demoniaca, che finisce per essere né più né meno che un elemento caricaturale. Bella la sua interpretazione di “Stride la vampa” e “Condotta ell’era in ceppi”; parimenti efficace il mezzosoprano romano anche nella parte conclusiva dell’opera (“Ai nostri monti”), dove ha saputo essere languidamente trasognata.
Non si è dimostrato da meno il Conte di Luna offerto dal polacco Artur Rucìnski, un baritono dalla voce potente e timbrata, grazie anche a un fraseggio e un’espressività, che hanno conquistato il pubblico: da “Il balen del suo sorriso”, temibile per le frequenti note di passaggio, alla seguente cabaletta “Per me ora fatale”, ai suoi interventi nelle scene d’insieme (“Di geloso amor sprezzato”, “Dunque gli estinti lasciano”, “ Ah! dell’indegno rendere”), dove si è anche confermata l’autorevolezza del direttore e degli altri cantanti.  Buona la performance di Carmen Giannattasio come Leonora, anche se la sua interpretazione si è rivelata talora non del tutto espressiva con qualche difficoltà nei passaggi di coloratura (“Di tale amor che dirsi”), dove si è sentita qualche discrepanza quanto ad affiatamento con l’orchestra. Va precisato comunque che, nel prosieguo dell’opera, le prestazioni del soprano avellinese sono andate migliorando, sicché si è progressivamente rivelata una Leonora più sensibile ed appassionata (“D’amor sull’ali rosee”, “Tu vedrai che amore in terra”, oltre a tutta l’ultima scena). Autorevole il Ferrando di Roberto Tagliavini come la Ines di Elisa Savino e il Ruiz di Dionigi D’Ostuni. Foto Michele Crosera