Venezia, Teatro Malibran: dittico sul mito di Cefalo e Procri

Venezia, Teatro Malibran, Stagione, Lirica e Balletto, 2016-2017
“ECCESSIVO È IL DOLOR QUAND’EGLI È MUTO”
dal Lamento di Procri di Francesco Cavalli
Musica Silvia Colasanti
Procri SILVIA FRIGATO
“CEFALO E PROCRI”
Moralità pseudo-classica in tre quadri su libretto di Rinaldo Küfferle
M
usica Ernst Krenek
Cefalo LEONARDO CORTELLAZZI
Crono WILLIAM CORRÒ
Procri SILVIA FRIGATO
Aurora CRISTINA BAGGIO
Diana FRANCESCA ASCIOTI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Tito Ceccherini
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Lici Vilmo Furian
Nuovo allestimento fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 1 ottobre 2017
Cefalo e Procri, la “moralità pseudo-classica in un prologo e tre quadri” di Ernst Krenek, riproposta dalla Fenice dopo tanti decenni dalla prima assoluta al Teatro Malibran nel 1934, ci riporta idealmente all’anno in cui si svolse, a Venezia, la terza edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea, allora diretto da Alfredo Casella, un musicista poliedrico, che associava all’attività di pianista, direttore d’orchestra, compositore e saggista, quella di instancabile animatore della musicale italiana: personaggio di spicco tra gli intellettuali, impegnati nella politica culturale – tendenzialmente “autarchica” e classicista in campo musicale – del Regime, ma nello stesso tempo aperto, senza troppe preclusioni, a quanto di nuovo offriva il panorama musicale internazionale. Casella – che nel programma della precedente edizione del Festival (1932) aveva inserito La favola d’Orfeo, “opera da camera in un atto” da lui stesso musicata su libretto di Corrado Pavolini, tratto dalla Fabula di Orfeo del Poliziano –, promosse, in vista della successiva edizione, quella appunto del 1934, la composizione di opere simili, vale a dire caratterizzate da un organico cameristico e una durata di circa mezz’ora: nacquero così Teresa nel bosco di Vittorio Rieti, Una favola di Andersen di Antonio Veretti e Cefalo e Procri dell’austriaco Ernst Krenek, un compositore che, dopo una fase sperimentale, cui appartiene il suo titolo più famoso (l’opera jazz Jonny spielt auf, del 1927), era approdato alla tecnica dodecafonica. Per il libretto della nuova opera di Krenek viene scelto il russo Rinaldo Küfferle – traduttore e autore di libretti –, esule in Italia dopo la Rivoluzione d’Ottobre che propone come argomento il famoso mito greco incentrato sul problema della fedeltà coniugale, narrato nel Libro VII delle Metamorfosi di Ovidio. La versione di Küfferle prende spunto dall’originale antico, ma vi si discosta, riducendo a cinque i numerosi personaggi e soprattutto modificando la fine, dove al posto della morte della ragazza si assiste alla riconciliazione dei protagonisti.
L’idea di abbinare alla “moralità pseudo-classica” di Krenek una breve composizione contemporanea per voce e orchestra sullo stesso argomento mitico è partita dal direttore artistico del teatro veneziano Fortunato Ortombina, che ha pensato – quale prima parte del dittico – ad una rielaborazione del Lamento di Procri, dal melodramma Gli amori di Apollo e Diana di Francesco Cavalli, coinvolgendo nel progetto una figura di rilievo tra i giovani compositori italiani: Silvia Colasanti, di cui il pubblico ha recentemente ascoltato in prima assoluta al Teatro La Fenice Ciò che resta, nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”. La Colasanti, diversamente da Krenek, che offre una visione edulcorata del mito, ha voluto rendere tutta la tragicità di questa storia, culminante – come nella versione originale di Ovidio – nella morte di Procri. Il titolo del lavoro, Eccessivo è il dolor quand’egli è muto, è la citazione del verso finale del lungo e Lamento di Procri che conclude il primo atto dell’opera di Cavalli. Anche la linea vocale è rimasta pressoché intatta rispetto a quella seicentesca, a parte qualche modifica a livello di tempi e di scansione metronomica. L’ingresso di Procri è preceduto da una lunga introduzione orchestrale che presenta un linguaggio estremamente aspro e vicino al nostro tempo ed esprime una grande inquietudine, attraverso i movimenti tellurici dell’orchestra, dove peraltro compaiono piccoli frammenti, molto lavorati timbricamente, che preannunciano dal punto di vista armonico il Lamento, in cui sono riconoscibili le armonie barocche, anche se talora velate, nascoste.
Precisa, elegante, sensibile la lettura che, di questo dittico ha offerto Tito Ceccherini, assecondato da un ensemble di strumentisti (dell’Orchestra del Teatro La Fenice) assolutamente attenti e in sintonia rispetto al gesto direttoriale. Per quanto riguarda Eccessivo è il dolor quand’egli è muto il maestro ha saputo valorizzare appieno questa rivisitazione della Colasanti, sottolineando, nel Lamento, i pregi dell’orchestrazione, resa qua e là più brillante rispetto all’originale, o l’alternarsi dei tempi, che vengono allargati, a sottolineare i momenti di maggiore lirismo, o ristretti nelle parti tipicamente recitative, così come ha saputo rendere con autorevolezza l’espressività contrastata del preludio che lo precede, di grande libertà inventiva, o il tono nostalgico della pagina puramente strumentale – una trascrizione per piccola orchestra del già citato Ciò che resta –, che conclude il pezzo, fungendo, tra l’altro, in qualche modo da trait-d’-union tra l’estetica barocca del Lamento di Cavalli e il neoclassicismo dodecafonico di Krenek. Quanto all’opera del compositore austriaco, Ceccherini ha confermato le sue doti di precisione, chiarezza, sensibilità, anche di fronte a questa eclettica partitura, in cui la tecnica dodecafonica convive con elementi più tradizionali, traendo il meglio dall’orchestra, che ha il compito fondamentale di dare unità alla sequenza drammatica, nonché di contribuire ad esprimere, con un sapiente uso dell’armonia e della strumentazione il tono psicologico dei vari momenti del dramma, ad arricchire il canto declamato, o a caratterizzare i singoli personaggi. Perfetta anche l’intesa con i cantanti.
A proposito delle voci, il soprano Silvia Frigato – come c’era da aspettarsi da una specialista nel canto barocco – si è destreggiata egregiamente nell’affrontare la linea di canto tipica del melodramma seicentesco, presente nel lavoro della Colasanti, quanto a fraseggio, timbro omogeneo e sensibilità nell’espressione degli affetti. Per analoghi motivi si è imposta anche nel declamato drammatico “novecentesco”, che percorre l’opera di Krenek, dove peraltro – senza nulla togliere all’ottima prestazione dell’artista rodigina – non ci sarebbe dispiaciuta un’interprete di maggior peso vocale. Anche gli altri interpreti che componevano il cast relativo alla “moralità” di Krenek, si sono dimostrati all’altezza: il tenore Leonardo Cortellazzi è un Cefalo che sa toccare diverse corde espressive – dalla passione alla tenerezza – con emissione nitida e sicura; analogamente convincenti dal punto di vista vocale ed espressivo sono risultate il contralto Francesca Ascioti e il soprano Cristina Baggio rispettivamente Diana e Aurora, oltre al basso-baritono William Corrò, che con voce penetrante, dal timbro metallico, ha interpretato un Crono di grande autorevolezza. Improntata alla creazione di una messinscena unitaria è l’impostazione registica di Valentino Villaalla sua prima esperienza nel teatro d’opera –, che considera le due parti, in cui si articola lo spettacolo, “alla pari”, ad esempio prevedendo servi di scena e “doppi” dei protagonisti anche per il monologo scritto dalla Colasanti: più rarefatta, comunque, risulta l’atmosfera che si coglie nella messinscena di quest’ultimo, in cui l’azione procede per visioni; soluzione questa funzionale all‘idea – condivisa tra il regista e la compositrice – che il lamento di Procri sia successivo alla morte della fanciulla. In Cefalo e Procri, invece, si assiste a uno sviluppo drammatico più classico, per quanto le divinità – Diana, Aurora e Crono– perdano, nei loro abiti borghesi, ogni sacralità, collocandosi su un piano umano. All’unità dello spettacolo hanno contribuito anche le scene di Massimo Checchetto, che in entrambi gli allestimenti ha diviso il palcoscenico in un parte anteriore – dove prevalentemente operano mimi e “doppi” e dove si raccontano gli antefatti – e una posteriore – in cui si svolgono le vicende dei protagonisti –, attraverso una parete, provvista di porta, formata da pannelli opalini, che ricordano l’arredamento giapponese. Funzionali anche le luci morbide di Vilmo Furian come i costumi di Carlos Tieppo che, in linea con l’impostazione registica,veste le divinità secondo uno stile primo-novecentesco, mentre i due protagonisti indossano vestimenti di stampo classicheggiante. Ci permettiamo di avanzare qualche riserva solo su qualche dettaglio di questa messinscena non proprio chiaro e coerente, ad esempio l’apparizione di Procri, o meglio del suo “doppio”, distesa su un letto d’ospedale o la scelta di “imborghesire” le divinità – in particolare risulta vagamente ridicolo Crono nel suo completo grigio –, ma tutto sommato lo spettacolo è, dal punto di vista visivo, abbastanza gradevole e convincente. Applausi convinti dopo l’opera di Ernst Krenek; alquanto tiepidi quelli riservati al lavoro di Silvia Colasanti. Foto Michele Crosera