Verona, Cortile Mercato Vecchio:”Animalie”

Verona, Cortile Mercato Vecchio, Estate Teatrale Veronese
“ANIMALIE”
Compagnia Sosta Palmizi

Coreografie e interprete Giorgio Rossi
Con David Riondino
Clarinetto Gabriele Mirabassi
Regia di Giorgio Gallione
Testi di Jorge Luis Borges-Stefano Benni-Toti Scialoja a cura di David Riondino e Giorgio Rossi
Verona, 20 luglio 2013
«T’ amo pio bue /anzi ne amo due» Letto da un foglietto col ghignetto, Giorgio Rossi si fa simpatico col sistemare (si dice: quel tanto odiato) Carducci citando uno dei “ri-versi linguistici” di Toti Scialoja. Come a dire che il bestiario che metterà in scena sarà frutto del duplice amore che avrà da Riondino (le parole) e da Mirabassi (la musica). Spettacolo in 20 quadri su di un palco volutamente spoglio e nero, che risalti le variopinte forme di quel catalogo infinito di visioni e di animali fantastici che abitano il giardino zoologico delle mitologie, che non è che il luogo dei nostri sogni di fanciullo (Scialoja), che sappia concentrare l’attenzione sulle parole, sul gesto e sul suono, che partorisca la narrativa dal binomio tra la danza e la letteratura; quindi appare l’Abao Aqu. L’animale dalla “pelle quasi traslucida”, frutto della mente di J. L. Borges (1957, “Manuale di zoologia fantastica), che ha la caratteristica di risvegliarsi dal letargo per effetto delle vibrazioni che percepisce dalle persone che ad esso si avvicinano, che sa inquietare con la sua presenza.
Qui Giorgio Rossi è racchiuso proprio in una pelle opalescente (in lattice) che vibra per la tensione di un’impalatura a spirale che finisce a imbuto, oltre la sua testa. E’ quasi fermo, muove solo gli arti atrofizzati, come il Dodo delle Mauritius; quell’uccello inetto al volo, che si estinse in breve a causa dei Conquistadores. Gli acuti distorti del clarinetto rammentano un verso animalesco, di chi ci dà il benvenuto e ci mette allo stesso tempo in guardia al cospetto delle apparizioni a venire.
Ed è ancora Borges ad essere letto con «gente dello specchio» (da Il libro degli esseri immaginari) e Riondino ci parla del Doppio che può essere colto nel riflesso e nell’eterozigote, come nel celarsi di qualcosa dietro a un’altra (hidebehind: i boscaioli si ritrovano più avanti, all’undicesimo quadro) e nel serio e il faceto della Scimmia dell’Inchiostro, che “attende pazientemente che tu abbia finito di scrivere qualcosa per berlo”; e Mirabassi fa volute dal basso all’acuto, come il calabrone che diventa zanzara.
D’un tratto si “naufraga” a Stranalandia (Stefano Benni) di cui rimane traccia scritta solo dei suoi meravigliosi animali, poiché i due più celebri quanto involontari scopritori, Kunbertus e Lupus, docenti di zoologia presso l’Università di Edimburgo, non seppero più localizzarla, una volta rientrati in Scozia. E si apprende pure di un certo Osvaldo, un esemplare di indigeno, nonché l’unico. Rossi ce ne dà un esempio tragicomico, ponendosi in posa statuaria facendolo assomigliare a un personaggio che sta tra un pinocchione (un adulto mai cresciuto d’intelletto) e un arlecchino con un remo al posto del bastone.
E si procede da uno strananimale all’altro: dal maialino volante, che ama l’odore di calzini, al cantango, “il quale è molto romantico e si innamora almeno sei volte per notte”. Rossi esce vestito da matador, tutto rosso, e si dilunga in un tango appassionato (con se stesso) sul clarinetto per l’unica volta, in tutto lo spettacolo, allegro e giocoso. Quindi giù nell’inferno subacqueo del Bahamut, quel pesce (tra pipistrello e drago) della cosmologia musulmana, oggi molto caro ai film e ai game di genere Fantasy, che avrebbe dovuto essere “lo spavento degli spaventi” ma che vediamo con i tratti somatici di un uomo elegante con vesti dorate che danza e fa vibrare le mani. I suoi gesti gentili accompagnano e sottolineano i suoni cupi del clarinetto che lo addomesticano e lo addormentano. Peccato che l’ombra sullo sfondo di questo quadro poetico sia stata rovinata (nascosta) da quella di un leggio troppo presente.
A metà spettacolo, Riondino prende per sé la scena e, seduto al centro del palco, fa della sua “canzone della foca” (1987), un divertente intermezzo. Da noto animalista qual è, non potrà non fare lo stesso in chiusura con la “canzone del silenzio degli animali” (1989, “L’infinito silenzio dei tapiri e la malinconia dei calabroni…”), resa celebre dal “mimo metafisico” Paolo Rossi.  Infatti, Animalie, vuol lasciare una morale, il messaggio che nel Medioevo era rappresentato proprio dai bestiari. Quei bassorilievi attorno alle porte delle chiese romaniche e nei capitelli delle colonne dei pulpiti, in cui gli animali fantastici fungevano da valore didattico ed etico-morale.
Di tutto lo spettacolo ancora due coreografie si possono citare per l’originalità dei costumi e per l’accompagnamento musicale. Quella dell’Albatros in cui Rossi si gonfia col Phon letteralmente il bianco costume del bel volatile, appesantendolo e atterrandolo definitivamente; facendo di un cenno di volo quell’ultimo ballo che avrebbe potuto essere del cigno divenuto il suo contrario, un anatroccolo. E quella dello Squonk, già abitante delle foreste di conifere della Pennsylvania, brutto d’aspetto e triste, fondamentalmente triste, che piange in continuazione lasciando dietro di sé un fiume di lacrime. Forte l’impatto di nasconderlo proprio sotto questa massa di lacrime (un grande nailon leggero), come un Blob. Una nuvola che striscia per il palco fiocamente illuminato come al crepuscolo che si muove ai suoni del clarinetto, intramezzati da colpi di tacco (sempre di Mirabassi) che ne scandiscono i tempi di entrata e di uscita di scena.
Uno spettacolo leggero, privo insomma delle figure retoriche e dei giochi linguistici che si potevano originare al di là dei testi. Privo di ricerca di senso coreografico al di là della non sempre plausibile improvvisazione. E non sarebbe stato fuori luogo proiettare qualche disegno animalesco di Pirro Cuniberti. Invece tutto è stato a beneficio dell’ironizzazione diretta che ha divertito il pubblico distraendolo dal caldo, ma soprattutto dalle rumorose ventole e dai nauseanti odori delle cucine dei ristoranti che danno sul bel Cortile del Mercato Vecchio di Verona.