Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2012:”Nûr” di Marco Taralli

Martina Franca, Teatro Verdi, XXXVIII° Festival della Valle d’Itria
“NUR”
Opera da camera in un atto, libretto di Vincenzo De Vivo da un’idea originale di Marco Buticchi.
Commissione del Festival della Valle d’Itria.
Musica di Marco Taralli
Luce
TIZIANA FABBRICINI
Samith DAVID FERRI DURA’
Il Frate PAOLO CONI
Il Cavaliere DAVIDE SOTGIU
L’infermiera MARTA CALCATERRA
Il primario EMANUELE CORDARO
Ensemble dell’Orchestra Internazionale d’Italia
Ensemble vocale dell’Accademia del Belcanto “R.Celletti”
Direttore Jordi Bernacer
Regia Roberto Recchia
Scene e costumi Benito Leonori
Prima esecuzione assoluta
Martina Franca, 21 luglio 2012
Nûr s’inserisce nel recente solco tracciato da spettacoli d’opera neo-romantici confezionati secondo un accademismo capace di conquistare il pubblico attraverso reminiscenze pucciniane e allusioni tutt’altro che velate alla tradizione melodrammatica italiana. La musica di Marco Taralli (classe ’67, attivo come compositore dal 1992), inverata da un complesso cameristico di legni, ottoni, archi e percussioni, è sembrata coeva alle partiture di Zandonai e Mancinelli, per citare solo due dei tanti operisti nostrani, oggi misconosciuti, che seppero declinare l’agonia del mondo tonale con dignitosa abilità compositiva. Innegabili le assonanze col Puccini della Fanciulla del West più che con quello di Tosca; numerosi gli sfoggi di contrappuntismi, sapienti ma non sapidi; costante il riferimento a una melodrammaturgia articolata da pezzi chiusi (quasi sempre polivoci) convenzionali; in una parola: formalismo. Nella partitura di Taralli non si ravvisava lo spirito che ha mosso Sciarrino in direzione del recupero del concetto di “tradizione” (Luci mie traditrici del 1996), né quello parodistico che affonda le radici nello Stravinskij di Rake’s Progress (1951) e nel Bernstein di Candide (1956). Ma non c’era lo sperimentalismo sonoro e visivo dei Soldaten di Zimmermann (1965), né l’arguto sarcasmo del Naso di Shostakovich (1930). Si è zigzagato volutamente nei decenni del XX secolo per mostrare quanto essi siano estranei all’ispirazione di Taralli, ben più a suo agio nella reinvenzione del passato, da Monteverdi a Rossini, a Respighi. Ne sortisce di certo un’opulenza compositiva che, beninteso, è ammirevole al pari dell’abilità artigianale di certo Hindemith. Questo giovane compositore generoso e volenteroso si è tuttavia dovuto confrontare con un libretto ipertrofico, in grado di sfoggiare una verbosità degna del peggior D’Annunzio, incentivata dalle aberrazioni neogotiche delle storie parallele di Marco Buticchi. A quest’ultimo si deve l’ideazione di un plot che fonde con sprezzatura postmoderna il politically correct (il medico volontario vessato da un ottuso primario nell’ospedale allestito a Collemaggio a ridosso del tragico terremoto aquilano non può che essere arabo, al pari del titolo che in quella lingua significa “luce”), l’ossequio al patrimonio identitario aquilano (Pietro da Morrone/Celestino V e la basilica di Collemaggio), al delirio paramassonico (il solo capace di spiegare perché una terremotata proletaria, ma privata proprio della prole, dovrebbe conoscere la storia dell’ultimo cavaliere templare), incurante di un senso teatrale che gli ammiccamenti all’opera “a numeri” non hanno potuto salvaguardare. Se a ciò si aggiunge una Tiziana Fabbricini larva di se stessa, con una vocalità davvero fantasmatica, e un cast ancora immaturo (deboli i tenori David Ferri Durà e David Sotgiu), davvero non si sa dove ricercare un’ombra di autentica bellezza in questo lavoro terribilmente pretenzioso (e interminabile ad onta dei suoi 80 minuti di durata). Forse nei chiaroscuri dell’ancor fascinosa voce di Paolo Coni? Una sola immagine ha reso imperdibile Nûr, ed è stata il frutto isolato dell’intelligenza (questa sì davvero teatrale) di un regista colto ma umile, profondo ma autoironico, come Roberto Recchia: nella scena sesta una donna ferita assiste al salvataggio del proprio bambino; Recchia (non il libretto, se tale può definirsi, di Vincenzo De Vivo) pensa a una controscena, nel luogo deputato alle apparizioni dei due personaggi storici, in cui un’altra donna ferita non ha la stessa fortuna e tiene tra le braccia il figlio morto nel tentativo di allattarlo: una pietà di eccezionale forza icastica, un’idea semplice e profonda che, unica in tutta l’opera, ricolloca in primo piano la tragedia del terremoto dell’Aquila (indegnamente relegata a sfondo, a cornice, di una fumosa storia sul tema del perdono) esaltandone lo scandalo incomprensibile. Perché un bimbo si salva e un altro muore? Perché quella gente è dovuta crepare come i diciotto sepolti sotto la torre di Siloe che non erano più peccatori di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme (Luca 13, vv 4-5)? Questi avrebbero dovuto essere i disperati interrogativi innescati da Nûr; altra avrebbe dovuto essere la musica, più ricca di pause (oggetti ignoti a Taralli, che però all’Aquila è nato e vissuto e che ha patito sulla sua stessa carne quella tragedia) e di sicuro meno patinata; altro soprattutto il libretto per un lavoro ispirato al dramma del 6 aprile 2009 (308 morti, 1600 feriti). Foto Laera © Festival della Valle d’Itria