Martina Franca, Festival della Valle d’Itria: “La donna serpente”

Martina Franca, Cortile di Palazzo Ducale – Festival della Valle d’Itria 2014
“LA DONNA SERPENTE”
Opera fiaba in un prologo, tre atti e sette quadri di Cesare Vico Ludovici, da Carlo Gozzi
Musica di Alfredo Casella
Altidòr
ANGELO VILLARI
Miranda
ZUZANA MARKOVÁ
Armilla
VANESSA GOIKOETXEA
Farzana
ANTA JANKOVSKA
Canzade
CANDIDA GUIDA
Alditrúf
SIMON EDWARDS
Albrigòr
DOMENICO COLAIANNI
Pantùl
PAVOL KUBAN
Tartagíl
TIMOTHY OLIVER
Tògrul
DAVIDE GIANGREGORIO
Demogorgòn
CARMINE MONACO
La Corifea / Una voce nel deserto / La fatina Smeraldina
CAROLINA LIPPO
Badur / Il Corifeo
GIORGIO CELENZA
Un primo messo / La voce del mago Geònca
ROCCO CAVALLUZZI
Un secondo messo
FRANCESCO CASTORO
Orchestra Internazionale d’Italia
Maestro concertatore e direttore d’orchestra Fabio Luisi
Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca
Maestro del coro Cornel Groza
Regia Arturo Cirillo
Scene Dario Gessati
Costumi Gianluca Falaschi
Disegno luci Giuseppe Calabrò
Coreografia Riccardo Olivier
Danzatori Fattoria Vittadini, Mattia Agatiello, Cesare Benedetti, Luciano Ariel Lanza, Vilma Trevisan
Coproduzione con la Fondazione Teatro Regio di Torino
Martina Franca, 26 Luglio 2014

Una rinnovata attenzione alla produzione operistica del Novecento ha contrassegnato le più recenti programmazioni del Festival della Valle d’Itria. Per la quarantesima edizione è stata riproposta La donna serpente di Alfredo Casella (Roma 1932), un’opera improntata a un evidente intellettualismo, dalla scrittura densa e ricca di preziosismi, estremamente impegnativa sul piano esecutivo. La rilettura del Gozzi fiabesco operata da Casella in collaborazione col librettista Ludovici si poneva sulla scia d’un processo di riavvicinamento delle avanguardie musicali al mondo del melodramma, filtrato dalla categoria del ‘fantastico’. La drammaturgia sconnessa e sghemba derivante dai percorsi narrativi delle fiabe gozziane si dimostrava funzionale a una sorta di cubismo teatral-musicale, caro a Stravinskij, che pochi compositori seppero incarnare. Casella ne diede la declinazione più complessa e raffinata, incorrendo tuttavia nel rischio della deriva cronometrica, della perdita d’efficacia scenica, della ridondanza.
Allestire uno spettacolo della durata di tre ore, imperniato su una logica di continua giustapposizione (di scene, di stacchi di tempo, di registri linguistici e stilistici) è una sfida non diversa da quella che mira alla riesumazione di opere barocche (paradossalmente il melodramma del Seicento e quello del secolo scorso offrono al regista e al direttore d’orchestra problemi molto simili). L’elemento che ha condotto questo allestimento a un’ottima riuscita può rintracciarsi tanto nel gusto ludico che ha mosso le scelte registiche, ben allineato allo spirito di Gozzi, quanto nella continua suggestione coloristica offerta dai costumi di Gianluca Falaschi, esaltati dal perfetto gioco di luci di Giuseppe Calabrò. Assistendo a una tale fantasmagoria poco importava, anche allo spettatore meno preparato, di smarrire le coordinate narrative della vicenda; ogni momento era gustato in sé, alla stregua di un mosaico osservato non da lontano ma da vicinissimo, tessera per tessera. All’esaltazione dei costumi di solisti e coro contribuiva il minimalismo delle scene di Dario Gessati, ridotte a tre moduli geometrici, ciascuno diviso in due sezioni, che nelle loro curve e convessità (assimilabili alle rampe degli skaters) permettevano a cantanti e danzatori di muoversi all’interno di uno spazio semplice e al tempo stesso complesso, autentico specchio della musica di Casella, capace di passare da sovrapposizioni politonali a elementari intrecci di linee e ritmi (evocatori di quei marionettismi e settecentismi cui tanto alludeva l’amico Ravel). Nell’uso di grandi sagome di cartapesta dipinta (semicerchio solare, falce di luna e nuvole per l’andirivieni di spiritelli) Gessati ha invece reso omaggio a una sensibilità scenografica settecentesca, e dunque al mondo di Gozzi e Goldoni, con un tocco naif e delicato.
La sintonia tra l’impostazione della regia di Arturo Cirillo (gozziano per sua ammissione) e il mondo neoclassico e stilizzato caselliano ha determinato per questa messinscena una non scontata coerenza complessiva: Cirillo ha infatti saputo ben dinamizzare la dialettica fra solisti e coro, ha ben curato la gestualità delle quattro maschere tradizionali (i cui costumi rimandavano al Balla futurista), ha ideato una mimica molto efficace per i segmenti ‘guerreschi’ dell’atto II (dialoganti, peraltro, con gli ammiccamenti che in partitura Casella rivolgeva allo stile ‘concitato’ dei madrigali guerrieri et amorosi monteverdiani). Stretto si è palesato anche il dialogo tra regista e coreografo (Riccardo Olivier) i cui danzatori hanno accompagnato le zone di giuntura tra scene e tra atti, come pure gli avvenimenti ‘spettacolosi’ (lotte con mostri, trasformazioni, apparizioni) con atletismi di grande impatto visivo. Sul fronte squisitamente musicale (che per Casella aveva il peso maggiore nell’economia dello spettacolo) il lavoro di Fabio Luisi è stato meticoloso. Con l’occhio al manoscritto di Casella, Luisi ha mantenuto per tutto il corso dell’opera una concentrazione e una precisione gestuale invidiabile (insieme a un trasporto emotivo sempre evidente) che gli orchestrali hanno saputo recepire e assimilare. Ottima dunque la prova dell’Orchestra Internazionale d’Italia, con particolare encomio ai legni. Non sempre precisa nell’intonazione la compagine femminile del coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca che tuttavia ha mostrato un buon livello di preparazione grazie alla guida di Cornel Groza.
Il tenore Angelo Villari si è distinto nel cast grazie a una voce possente dal timbro smagliante e sicura nel muoversi tra le linee di canto caselliane, spesso di ardua intonazione. È parsa invece piuttosto ‘piccola’ la voce di Zuzana Markovà, ma sempre perfettamente intonata, la cui dimensione cameristica probabilmente è stata penalizzata dall’esibizione all’aperto. Cionondimeno il lamento di Miranda, eseguito in dialogo con il coro a cappella e nel buio quasi completo, ha sortito uno dei momenti più intensi dello spettacolo. Poco ricche sul piano timbrico le voci di Anta Jankovska e Candida Guida. Convincente la prova delle quattro maschere buffe tra le quali Domenico Colaianni ha lasciato nuovamente gustare il suo consueto istrionismo e la ricchezza della sua voce baritonale. Indisposto e tuttavia generoso nell’impegno vocale il Demogorgon di Carmine Monaco. Conferma di essere più che promettente il soprano Carolina Lippo. Buone le restanti parti di fianco. Resta una soddisfazione origliare, a mezzanotte passata, la soddisfazione di un pubblico, variegato per età e interessi, del tutto consapevole di aver ascoltato uno spettacolo raro e raffinato. Foto Laera / Marta Massafra