New York, Metropolitan Opera:”Don Carlo”

New York, Metropolitan Opera, Stagione Lirica, 2010 / 2011
“DON CARLO”
Grand-opéra in cinque atti su libretto di Francois-Joseph Méery e Camille Du Locle, dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller. Versione in cinque atti su libretto italiano.
Musica di Giuseppe Verdi
Elisabetta di Valois MARINA POPLAVSKAYA
Don Carlo ROBERTO ALAGNA
Filippo II FERRUCCIO FURLANETTO
Rodrigo, Marchese di Posa SIMON KEENLYSIDE
La principessa Eboli
ANNA SMIRNOVA
Il grande Inquisitore ERIC HALFVARSON
Tebaldo LAYLA CLAIRE
Un frate ALEXEI TANOTVISKY
Conte di Lerma EDUARDO VALDES
Deputati fiamminghi DONOVAN SINGLETARY, KEITH HARRIS
CHRISTOPHER SCHALDENBRAND. JOSHUA BENAIM
TYLER SIMPSON, ERIC JORDAN
Voce dal cielo JENNIFER CHECK
Coro e Orchestra del Metropolitan
Direttore Yannick Nézet-Séguin
Regia Nicholas Hytner
Scene e Costumi Bob Crowley
Luci Mark Henderson
Coproduzione, Metropolitan Opera, Royal Opera House, Covent Garden,
e  Norwegian National Opera & Ballet
New York, 23 novembre 2o1o
Molto raramente un’opera che ha inizio alle 19 e sulla quale il sipario cala a mezzanotte, di lunedì, riesce a catturare un auditorio in un rapito silenzio. È un piacere poter riferire che la serata sia andata per il meglio – regia ineccepibile, un set di grande effetto e, soprattutto, un cast molto forte guidato da un direttore d’orchestra che sapeva cosa voleva dalla partitura e che ha saputo infondere maestria, fidando nelle proprie capacità con rispetto per il difficile compito dei solisti.
Ci vorrebbe un bisbetico tipo Beckmesser di Wagner per cercare il pelo nell’uovo di questa performance, la première stagionale del Don Carlo al Met, che è stata presentata nella versione italiana in cinque atti e non nella versione originale in francese.
Le scene e i costumi erano assolutamente impressionanti e d’effetto, così come il monastero di St. Just, con la sua catacomba sotterranea contenente il sarcofago di Carlo V, e il quadro mozzafiato dell’autodafé del III atto con la cattedrale di Valladolid placcata d’oro, il cielo rosso sangue e un enorme ritratto di Cristo tormentato piazzato sulla sinistra che domina il palco, che alla fine dell’Atto tende a trasparire, mostrando i resti di eretici bruciati al rogo. Tutto l’orrore dell’Inquisizione Spagnola si è palesato in quel frangente. La tortura e la morte al rogo erano suggerite e non letteralmente imposte al pubblico, aumentando il senso di terrore e di mania che era sotteso all’Inquisizione.
La performance di Roberto Alagna nel ruolo del protagonista, dopo un’iniziale idea di aridità e forzatura nella sua sola aria “Io la Vidi,” è stata impressionante e commovente. Questo ruolo è ingrato e nella maggior parte delle esecuzioni è appena memorabile se il tenore non riesce ad esserne all’altezza. Don Carlo ha solo una vera aria e il ruolo è estremamente lungo e gravoso. Col procedere della serata, Alagna è diventato più convincente, con acuti potenti ed espressione profondamente calata nel ruolo.
Per chi scrive, il punto più alto dello spettacolo dal punto di vista musicale e drammatico è stata l’esecuzione di Ferruccio Furlanetto della grande aria del Re “Ella Giammai M’amò”. Ci vorrebbe un’intera recensione dedicata ad esplorare nel dettaglio la sonorità e la varietà di colore vocale ed espressivo che Furlanetto è stato capace di infondere a quest’aria, forse la più grande aria per basso mai scritta da Verdi. La frase iniziale “Amor per me non ha,” grandemente temuto dai bassi, viene ripetuta due volte. Nella prima di queste due ripetizioni, questo grande arista è riuscito a ridimensionare la sua gran voce smorzando, ma risultando comunque risonante. Non ha lasciato che il direttore d’orchestra lo affrettasse, prendendosi tutto il tempo che gli necessitava per respirare a dovere e prepararsi per ogni frase sempre più impegnativa, senza minimamente sminuire il sempre più intenso dramma della scena. Nella ripresa della difficile frase in questione, ha aperto con  un suono intenso ed avvolgente, coinvolgente nella sua intensità emotiva, perchè in quanto il Re, pur possedendo tutta la potenza politica del mondo, piange la mancanza d’amore da parte della moglie e la sua solitudine.
Marilyn Horne, una grande Eboli dei suoi tempi, descrive correttamente questo ruolo come una parte che necessiterebbe di tre cantanti; una d’agilità nell’aria del Velo, una per Eboli fidanzata, rifiutata da Carlo nella loro prima scena dell’atto terzo, e una che possa strabiliare nello slancio dell’assolo “O Don Fatale.” Il mezzosoprano Anna Smirnova si è rivelata realmente adatta solo a quest’ultima sfida: la sua aria del Velo era stentata e mancava di delicatezza. Tuttavia, la sua vocalità scura e potente e il suo meraviglioso Si acuto nella sua aria del terzo atto erano  mozzafiato. L’Elisabetta di Marina Poplavskaya è stata cantata con grande bellezza e un sublime fil di voce. Sfortunatamente, dopo le innumerevoli sfide di questa lunga serata, la sua aria finale “Tu Che la Vanità” è risultata stentata, con un settore acuto forzato e un impatto emotivo limitato. Simon Keenlyside, che l’anno scorso interpretò un ammirevole Amleto nell’opera di Ambrose Thomas al Met, è stato una buona presenza drammatica, ma è sembrato un po’ inconsapevole della sua profondità vocale. Era spesso sopraffatto dall’orchestra e la sua aria “Per me Giunto,” in cui dedica la sua vita a salvare l’assillato Flanders e dichiara la sua lealtà e il suo legame d’affetto a Carlo, è risultata debole.
Il grande veterano del palcoscenico, Eric Halfvarson, un memorabile Hagen in Götterdämmerung, ha reso l’essenza dell’anziano, cieco e tuttavia ancora molto potente e minaccioso Grande Inquisitore in maniera impressionante. A questo punto della sua lunga carriera, la voce di Halfvarson tende ad aprirsi e a tremare nei momenti cruciali, per quanto la sua performance e la sua presenza siano state efficaci e spaventose. Il suo abito cardinalizio rosso, l’unica nota di colore nel buio della camera di Filippo, era un memento sanguigno della sua caccia fanatica agli eretici e l’orrore del fuoco del rogo a cui erano condannate le sue vittime. Nel grande e aggressivo duetto tra il Re e l’Inquisitore, si è avuta l’impressione che non sia stata data la possibilità al fraseggio di risuonare, ma piuttosto che le parole siano state precipitosamente amalgamate insieme dal direttore, che ha in qualche modo sminuito l’impatto di questa scena grandiosa. Ben cantati i ruoli secondari, specialmente da Lalya Claire (al suo debutto al Met nel ruolo del paggio di Elisabetta, Tebaldo) e dalla Voce dal Cielo (Jennifer Check), a cui spetta lo spaventoso compito di esibirsi in un breve e molto acuto verso angelico alla fine del terzo atto. Lei ha affrontato questa sfida con coraggio, cantando dall’alto delle balconate dell’auditorio, e non dietro o sul palco. Il Frate (Alexei Tonvitsky, che debuttava al Met) è stato imponente. Una menzione speciale andrebbe fatta per i sei Deputati Fiamminghi, che cantano all’unisono nell’autodafè del terzo atto, implorando il Re Filippo di dare sollievo al popolo fiammingo. L’impasto vocale era perfetto, al punto da sembrare un’unica voce implorante, ma piena di dignità. Troppi prodigi sono venuti dalla buca per elencarli tutti. La sezione dei fiati, che ha suonato all’unisono all’inizio del quarto atto, era perfetta nella sobrietà della propria sonorità. Foto Ken Howard