Palermo, Teatro Massimo:”La Gioconda”

Palermo, Teatro Massimo, stagione lirica 2010-2011
“LA GIOCONDA”

Melodramma in quattro atti di Tobia Gorrio (Arrigo Boito)
Musica di Amilcare Ponchielli
La Gioconda DANIELA DESSI’
Laura Adorno MARIANNE CORNETTI
Alvise Badoero ALEXANDER VINOGRADOV
La cieca ELISABETTA FIORILLO
Enzo Grimaldo AQUILES MACHADO
Barnaba ALBERTO MASTROMARINO
Zuane ANGELO NARDINOCCHI
Un cantore /Barnabotto ANTONIO BARBAGALLO
Isepo / Una voce SAVERIO BAMBI
Un pilota / Una voce GIOVANNI LO RE
Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Srboljub Dinic
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Jean Louis Grinda
Scene Eric Chevalier , Nicolas de Lajartre
Costumi Jean-Pierre Capeyron
Coreografia Marc Ribaud
Luci Jacques Chatelet
Allestimento coprodotto da Opéra Royale de Wallonie, Centre lyrique de la Communauté française de Belgique, Opéra de Nice – Esplanade-Opéra de Saint-étienne
Palermo, 24 febbraio 2011 
Nel repertorio operistico, accanto ai titoli di grande richiamo, esistono lavori che pur essendo conosciuti e apprezzati dal pubblico vengono rappresentati piuttosto di rado. La Gioconda, opera composta da Amilcare Ponchielli fra il 1874 e il 1876, appartiene decisamente a questa categoria, a dispetto del successo ottenuto presso i contemporanei e dell’influenza esercitata su opere e compositori. Non stupisce, dunque, la lunga assenza dalle scene palermitane per ben 41 anni, dalla stagione del 1970, quando ad interpretarla furono cantanti del calibro di Leyla Gencer, Renato Cioni, Anna Di Stasio e Piero Cappuccilli, guidati dalla bacchetta di Antonino Votto (che peraltro diresse la Callas nelle due celebri incisioni in studio del 1952 e 1959).
Dopo Senso, commissionata in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, con la seconda opera della stagione 2011 il Teatro Massimo decide di celebrare se stesso e le proprie origini. La Gioconda infatti fu tra le opere inaugurali del nuovo teatro, esattamente nel maggio del 1897, protagonista un giovanissimo Enrico Caruso agli inizi della propria carriera. La scelta del Massimo è coraggiosa, sia per le caratteristiche della messa in scena (che risente fortemente dell’impianto da grand-opéra) che per le difficoltà dei ruoli vocali. La sfida, comunque, è complessivamente vinta, almeno sul piano interpretativo e musicale.
L’allestimento – una coproduzione tra il Théâtre Royal de Wallonie / Liège, l’Opéra de Nice e l’Esplanade-Opéra de Saint Etienne – ha presentato punti di forza, ma anche aspetti piuttosto discutibili. Azzeccata, ad esempio, l’opposizione fra luminosità e oscurità che ha rispecchiato in modo intelligente i contrasti insiti in musica e drammaturgia. Nel primo atto l’abile dosaggio delle luci – frutto della collaborazione fra il regista Jean-Louis Grinda e il lighting designer Jacques Chatelet – si è snodato nell’alternanza fra le tonalità calde delle scene corali (soprattutto quelle di carattere giocoso) e quelle fredde, tra il blu di Prussia e il blu cobalto, dei pezzi a solo o di duetti e terzetti. Questa alternanza la si ritrova anche al livello della macrostruttura, con un terzo atto pressoché luminoso, incorniciato da un secondo e da un quarto decisamente più plumbei. Generalmente sotto tono le soluzioni scenografiche di Eric Chevalier, senza guizzi né slanci particolari, aderenti ad una regia classica e asciutta. Sul piano scenico colpisce soprattutto il meraviglioso trompe-l’oeil dalla Camera degli Sposi del Mantegna, scelto come fondale della seconda parte del terzo atto e abbandonato in corrispondenza della celeberrima “Danza delle Ore”. Quest’ultima viene riletta in chiave mitologica dalla coreografia asettica di Marc Ribaud, che purtroppo non differenzia i vari momenti della partitura (Aurora, Giorno, Sera e Notte), creando un’omogeneità del tutto contrastante con il piano musicale (in questo Walt Disney resta insuperato). Convince invece l’invenzione della mascherata nel primo atto, con una pantomima ispirata al mondo della Commedia dell’Arte che ben si intona al periodo – il XVII secolo – in cui l’opera è ambientata (rappresentato anche dai multiformi costumi di Jean-Pierre Capeyron).
Non condivisibili alcune scelte registiche, basate su un alleggerimento delle scene di insieme e su uno strano equilibrio fra staticità e movimento. Stona soprattutto che Gioconda venga accompagnata quasi sempre da due nani, un uomo e una donna, quest’ultima “alter ego” della protagonista, abbigliata come lei e in alcuni casi (parte centrale del primo atto) sua replicante in gesti e atteggiamenti. Il loro intervento disperde l’attenzione e infastidisce nei momenti in cui la resa drammaturgica richiede la presenza della sola protagonista, come nella scena iniziale del terzo atto. La concezione teatrale della messinscena si è avvalsa di fondali dipinti, riducendo al minimo gli elementi scenici e soprattutto quelli architettonici: lo scorcio del palazzo nel primo atto; il vascello semovente del secondo; il faro diroccato nell’ultimo. Una depurazione stilistica forse eccessiva, che però come effetto positivo ha avuto quello di mettere in risalto le qualità musicali dello spettacolo.
L’elegante direzione di Srboljub Dinic – al suo debutto nell’opera di Ponchielli – si è dimostrata assolutamente all’altezza, riuscendo ad evidenziare le tessiture cameristiche di taluni passaggi, di contro a quelle spettacolari e robuste di altri (contrapposizione lampante a partire già dall’Ouverture e dall’inizio del primo atto). Grazie all’abilità di Dinic, l’orchestra si è trovata a proprio agio nell’esecuzione dei momenti più difficili, senza tralasciare le numerose raffinatezze presenti in partitura.
A debuttare nel ruolo di Gioconda, il soprano genovese Daniela Dessì, che ha conferito alla protagonista uno spessore drammatico del tutto adeguato, sostenuto da gesti quasi sempre misurati e da qualità vocali morbide e pastose, in particolare nel terzo e quarto atto. In “Suicidio” la Dessì ha strappato unanimi consensi, convincendo soprattutto per la resa attoriale e per certe inflessioni nel registro grave, di grande effetto tragico. Antitetiche rispetto alla scrittura vocale del resto dell’opera, ma anche per questo particolarmente apprezzate, le note di agilità che la cantante ha dispensato nel duetto conclusivo (“Vo’ farmi più gaia”).
L’ingaggio in extremis di Aquiles Machado, in sostituzione di Salvatore Licitra, non ha fatto rimpiangere il tenore previsto originariamente, già interprete di un deludente Johnson ne La Fanciulla del West (sempre a Palermo, nel dicembre del 2010). Sebbene leggermente fuori ruolo (forse a causa delle prove affrettate), la resa vocale di Enzo Grimaldo da parte di Machado si è espressa in un canto squillante e attraente, corretto nell’intonazione e nell’emissione. Il tenore venezuelano si è segnalato in particolar modo nel duetto con Laura del secondo atto e nella romanza “Cielo e mar”, affrontata con sicurezza e piglio giovanile.
Esattamente opposto il giudizio su Alberto Mastromarino, interprete di Barnaba: se il timbro era reso “cattivo” da asperità gutturali, certe grossolanità non sono passate inosservate, soprattutto nell’emissione dei suoni acuti. Il versante interpretativo è risultato invece assai più maturo, a rappresentare la sapiente mescolanza fra Jago e Scarpia che caratterizza il personaggio (non dimentichiamo che Ponchielli fu maestro di Puccini). Il carattere mefistofelico è emerso in particolare nel grande monologo del primo atto (“O monumento”), dove a salvare Mastromarino è stata appunto l’interpretazione, mentre sullo sfondo campeggiava inquietante l’immagine del leone, simbolo di Venezia e del potere infestante dell’Inquisizione (la bocca delle denunzie).
Vocalmente impeccabile Marianne Cornetti nel ruolo di Laura, che tuttavia a nostro parere non è riuscita a suscitare grandi emozioni, a causa di una presenza scenica abbastanza inadeguata e desolatamente statica. La sua esecuzione della preghiera “Stella del marinar” è stata comunque ineccepibile, anche in confronto alle prove – più o meno  convincenti – degli altri solisti. Efficace anche la Cieca di Elisabetta Fiorillo, dal timbro corposo nel registro grave e dall’interpretazione ormai consolidata, particolarmente evidente nel terzetto (“Figlia che reggi il tremulo piè”) e nella romanza (“Voce di donna o d’angelo”).
Anello debole del cast, il basso russo Alexander Vinogradov, un Alvise Badoero stinto e dimesso, quasi più garzone da bottega che autorevole capo dell’Inquisizione veneziana. Anche sul piano strettamente vocale, la sua prova si è rivelata mediocre, senza note di merito. Un vero peccato, considerando l’interesse del personaggio e la sua importanza – spesso sottovalutata – nel corso dell’opera, soprattutto in quello che è forse il suo momento drammaturgicamente più efficace, la parte iniziale del terzo atto, in questo caso monopolizzata dalle due interpreti femminili, alle quali il pubblico ha tributato, alla fine, il giusto riconoscimento. Foto Franco Lannino – Archivio Teatro Massimo