“Andrea Chénier” tra verismo e dramma storico (prima parte)

Andrea Chénier, l’ unico lavoro di Umberto Giordano rimasto stabilmente nel normale repertorio operistico, ha avuto, fin dalle sue prime apparizioni sulle scene teatrali, un successo continuo ed unanime, pressoché ininterrotto, sui palcoscenici di tutto il mondo, senza che il pubblico, né gli interpreti abbiano mai dimostrato di esserne saturi. Di fronte a questa ragione, l’ opinione degli studiosi, che su questo e altri lavori del periodo cosiddetto “verista” hanno sempre avuto pareri contrastanti, passa in secondo piano, visto che alla fin fine è sempre il giudizio del pubblico a decretare le fortune di un’ opera (anche Verdi, come ben sappiamo la pensava così); e, d’ altra parte, ancora oggi è difficile trovare studi che sull’ opera verista dimostrino, se non obiettività, almeno serenità di spirito nel giudicare.
Soprattutto nei primi decenni del secolo, infatti, i musicisti e saggisti che diedero vita, in Italia, alle battaglie culturali in favore della “musica moderna”, si posero per obiettivo principale la condanna senza appello di tutto il teatro musicale verista, nonché di Puccini, che solo successivamente ottenne uno stralcio della sua posizione, per esprimerci ancora in termini giuridici. Per contro, i detrattori e i nemici di questo movimento seguitarono a difendere il verismo con un furore non meno polemico e non meno animato da ragioni ideologiche piuttosto che artistiche. Oggi, visto che queste ragioni dovrebbero ormai essere consegnate alla storia e che, d’altra parte, le battaglie per l’avanguardia hanno preso tutt’altre strade, tutto questo dovrebbe essere acqua passata, e invece non è così, o almeno lo è solo in parte.

Ma, per tornare all’argomento principale di questo scritto,
quali sono gli aspetti di Andrea Chénier che si impongono oggi alla nostra attenzione e quale fu la posizione di Umberto Giordano nell’ambito del teatro lirico della sua epoca? Cominciamo dalla seconda questione: non c’è dubbio che, anche nelle sue migliori riuscite, la musica di Giordano rimanga ad un livello qualitativamente inferiore rispetto ad altri artisti di quel periodo. Lasciando stare Puccini, che per preparazione, abilità e felicità inventiva stava nettamente al di sopra di tutti, Giordano non possedeva certo la raffinatezza strumentale di Cilea o la capacità di tratteggiare fulmineamente i caratteri che era propria di Mascagni all’inizio della carriera. Ma è altrettanto vero che a questo musicista non facevano difetto la preparazione e la felicità dell’invenzione melodica, e nemmeno la capacità di organizzare un discorso teatrale vario ed avvincente.D’ altra parte, l’ aver studiato al Conservatorio di Napoli, a quell’ epoca, testimonia delle solide basi su cui poggiava la sua preparazione. Quando studiava, Giordano era già considerato come uno degli elementi più promettenti della sua scuola, e due suoi lavori scolastici, la romanza “Idillio” e una Suite per quartetto d’ archi, vennero eseguiti in pubblico ottenendo favorevoli accoglienze; anzi, la romanza venne anche pubblicata da Ricordi.
Contemporaneamente, Giordano aveva partecipato al Concorso Sonzogno del 1888, quello da cui doveva uscire vincitrice Cavalleria Rusticana. L’opera da lui presentata, Marina, ottenne una menzione d’onore, anche se non venne poi mai eseguita in pubblico. Alcuni membri della giuria, tra i quali erano Filippo Marchetti ed Amintore Galli (il primo godeva allora buona fama quale autore di un’opera discretamente fortunata come il Ruy Blas e l’altro, oltre che professore di Storia della Musica al Conservatorio di Milano, era un influente membro di Casa Sonzogno) riuscirono a combinare un incontro tra il ventunenne musicista e l’editore. Recatosi da Sonzogno a Roma, Giordano gli suonò l’intero spartito di Marina. Come risultato, il compositore ottenne l’ incarico di scrivere una nuova opera entro un anno ed una somma mensile in qualità di stipendio.
Sonzogno, a quell’epoca, riservava lo stesso trattamento a diversi giovani promettenti, tra i quali Mascagni, Leoncavallo, Spiro Samara, Gaetano Coronaro ed altri. Lo scopo era quello di creare un repertorio operistico tale da poter competere con quello dell’editore rivale, Giulio Ricordi, proprietario dei diritti d’ esecuzione di tutti i grandi dell’ Ottocento italiano e di Wagner (dopo l’assorbimento, avvenuto nel 1888, della casa editrice Lucca, che fu la prima a pubblicare in Italia le opere del musicista tedesco). Sonzogno aveva risposto ai “colpi” di Ricordi con l’ acquisizione di quasi tutto il repertorio moderno francese (Carmen, Mignon e la maggior parte dei lavori di Massenet) e con i famosi concorsi operistici tenutisi dal 1883 al 1904, attraverso i quali cercava di assicurare i migliori giovani talenti alla sua Casa. Dopo essersi lasciato scappare Puccini, che aveva partecipato alla prima edizione del 1883 con Le Willis (poi pubblicata col titolo Le Villi), la quale non era stata neppure segnalata ed era poi stata pubblicata da Ricordi, Sonzogno non ripeté lo stesso errore con Mascagni e poi con Giordano.
Il risultato fu la creazione di una nuova moda: quell’ opera verista consona alle attenzioni per la realtà sociale che l’editore sosteneva sulle pagine del suo giornale, Il Secolo. Ma, per tornare a Giordano, il primo frutto dell’ impegno con Sonzogno fu Mala Vita, tratta da un racconto di Salvatore di Giacomo adattato a librettodal giornalista Nicola Daspuro, rappresentata al Teatro Argentina di Roma il 27 febbraio 1892, interpreti Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, gli stessi della “prima” di Cavalleria Rusticana. L’opera in una ripresa a Napoli scandalizzò il pubblico e provocò disordini in teatro,anche a causa della scabrosità del soggetto, che portava in scena il mondo della camorra napoletana e avevacome protagonista una prostituta, Cristina, sfruttata dal marito, Annetiello (molti aspetti scabrosi della tramavennero attenuati nel rifacimento che Giordano ne fece nel 1897, intitolato Il Voto). Il lavoro però piacque indiverse riprese in Italia e all’estero (era quello il momento in cui, soprattutto in Germania, il melodramma verista otteneva un successo clamoroso.
Si veda a questo proposito l’ articolo di Marcello Conati “Mascagni, Puccini, Leoncavallo & C. in Germania”, pubblicato su Discoteca nell’agosto 1976) e se ne occupò, dandone un giudizio favorevole, anche il celebre critico viennese Eduard Hanslick. Comunque, sotto l’ impressione dei tumulti alla rappresentazione napoletana di Mala Vita, Giordano si decise, per la sua opera successiva, a tornare ad un soggetto storico. Il risultato fu Regina Diaz (Napoli, Teatro Mercadante, 5 marzo 1894), accolta con un certo favore, ma indubbiamente un lavoro nato morto (il libretto era un rifacimento della donizettiana Maria di Rohan), tanto che fu ritirato dopo due sole rappresentazioni.
A quel punto, Sonzogno, che già durante le prove della nuova opera aveva manifestato a Giordano le sue riserve, disse al musicista che la loro associazione doveva considerarsi conclusa. Giordano, che già stava pensando di abbandonare la musica e mettersi a dirigere una scuola di scherma, fu salvato da un incontro determinante: quello con AlbertoFranchetti, che allora era a Napoli per la prima esecuzione locale della sua opera Fior d’ Alpe. Come poi lo stesso Giordano rievocherà, Franchetti, allora musicista molto stimato per il recente successo del Cristoforo Colombo, lavoro commissionatogli dalla città di Genova per celebrare il quarto centenario della scoperta dell’ America, gli offrì, durante un pranzo in una trattoria napoletana, i diritti del libretto di Andrea Chénier, che Luigi Illica si era impegnato a scrivere per lui. E fu lo stesso Franchetti che persuase Sonzogno affinché continuasse a versare a Giordano le trecento lire del contratto ancora per un anno.
Trasferitosi a Milano, per lavorare a contatto con Illica, Giordano trovò alloggio nel deposito di statue di un impresario di pompe funebri, vicino al Cimitero Monumentale e dovette adattarsi, dati gli impegni di Illica con Giacosa e Puccini per La Bohème, che stava nascendo in quel periodo, ad avere pochi contatti col librettista, cosicché la loro collaborazione fu portata avanti in massima parte attraverso la posta. Durante la composizione, Giordano persuase il poeta ad apportare alcuni cambiamenti al testo (come la soppressione dell’ episodio degli accenditori di fanali al secondo atto, che avrebbe potuto ricordare troppo da vicino quello analogo della Manon Lescaut). L’ opera fu finita il 27 gennaio 1896, e rapidamente messa in cartellone alla Scala, che Sonzogno gestiva per quella stagione, anche per l’ appoggio di Mascagni, che valse a superare la scarsa fiducia nutrita da molti membri di Casa Sonzogno nei confronti del lavoro. D’ altra parte, l’intera stagione scaligera sembrava nata sotto pessimi auspici: infatti, l’ apertura era avvenuta con Henry VIII di Saint Saëns, sotto la supervisione dell’autore, ed era stata un clamoroso insuccesso. Anche peggio era andata La Navarraise di Massenet (un lavoro che presenta parecchie analogie con la Cavalleria Rusticana tanto che, al suo apparire, venne malignamente ribattezzato Calvelleria Espanola, alludendo alla prima interprete, che fu Emma Calvè) anch’ essa fischiatissima. Il fondo fu toccato con una ripresa di Carmen, partitura molto amata dal pubblico, che questa volta se la prese con gli interpreti (la Rappini e il tenore Vignas), tanto che l’opera venne interrotta durante il terzo atto.

La situazione sembrava dunque già abbastanza pesante
, e a complicare le cose ci si mise anche la defezione del protagonista designato, il tenore Alfonso Garulli, che rinunciò, forse fiutando un fiasco in arrivo. Giordano e Illica si rivolsero allora a un giovane cantante, da poco tornato dalla Russia e rimasto a Milano in attesa di scritture: era Giuseppe Borgatti, in seguito destinato a diventare famoso come il massimo tenore wagneriano di lingua italiana. Favorevolmente impressionato dal lavoro, accettò subito la parte (e racconterà poi di averla imparata in sei ore!) e l’opera poté andare in scena la sera del 28 marzo 1896. Oltre al Borgatti, cantavano il soprano Evelina Carrera e il baritono Mario Sammarco; dirigeva l’orchestra Rodolfo Ferrari. I primi applausi cominciarono subito dopo la sortita di Gerard, continuarono all’ Improvviso, che Borgatti dovette bissare, e si riassumono nel telegramma spedito da Sonzogno a Illica, alla fine dello spettacolo: “Trionfo completo per primo-terzo-quarto atto. Piacque pure secondo. Ventina chiamate artisti e maestro. Volevasi anche librettista.Venite assistere seconda”.
(fine prima parte)