Nonostante una “prima” dfficoltasa a causa del maltempo, è andata in scena lo scorso sabato, all’arena Sferisterio di Macerata, la seconda opera in cartellone dopo il Ballo in maschera, il Rigoletto nel nuovo allestimento interamente firmato da Massimo Gasparon, che qui ci racconta la sua visione dell’opera verdiana.
Gentile Maestro Gasparon, prima di tutto, può brevemente delinearci i tratti più rilevanti del suo Rigoletto qui all’Arena Sferisterio?
Questo Rigoletto segue una mia precedente esperienza di titolo a Lima: il debutto mondiale del notissimo Juan Diego Florez nel ruolo del Duca ed in concomitanza del suo matrimonio (ho persino, per quell’occasione, curato l’abito da sposa della Signora). Un ruolo che ha interpretato benissimo, ma che poi ha abbondato probabilmente perché ha ritenuto la sua vocalità ancora lontana dalla partitura verdiana. La produzione dello Sferisterio è in assoluto un’esperienza appagante, anche perché ho ritrovato un cast molto omogeneo con degli interpreti che incarnano il mio immaginario: un Duca molto giovane, qui il tenore Ismael Jordi, una Gilda assolutamente deliziosa il soprano Desirée Rancatore ed un Rigoletto come Giovanni Meoni che non ha, diciamo, neanche visivamente delle caratteristiche melodrammatiche tali da rendere il personaggio artificioso ed uguale a se stesso rischiando di trasformarlo in una caricatura stereotipata.
Rigoletto, a mio avviso, deve giocare sempre sul filo della bipolarità: il lato privato, intimo e quello pubblico più sfrontato. In fin dei conti, questi due aspetti li ritroviamo nel privato di Verdi stesso che, nonostante per esempio convivesse e che quindi avesse scelto nel privato regole sociali lontane da quelle più comunemente condivise, ricercava sempre un riconoscimento sociale pubblico che lo appagasse e lo facesse sentire pienamente integrato. Così Rigoletto, sebbene per altri aspetti sia un emarginato, è anche un uomo che tenta di costruirsi una dimensione borghese, di dignità domestica che è quella che poi imbastirà intorno alla figura della figlia.
In merito poi alla maledizione come incombente peso sullo sviluppo del personaggio di Rigoletto, io voglio più credere alla “fatalità” ed all’”orgoglio” che in fin dei conti uccide la figlia e porta alla deriva anche il suo spirito. Invece di fuggire e salvare la figlia, Rigoletto cade nell’amor proprio perdendo così definitivamente la possibilità di salvarsi. Perde il senso della realtà e preferisce punire il Duca. E così come accade nella realtà il potente rimane impunito e scevro da ogni danno ed ecco che il misero rimane altresì dannato e beffato. Ritengo che questa sia una grande lezione che Verdi dà sulla vita. La sua non è a mio avviso una concezione tragica, quanto più che mai realistica ed è per questo che definirei quest’opera assolutamente moderna ed attuale e decifrabile dal pubblico di ogni tempo.
Parlando di fatalità, appunto, ci inseriamo pienamente in quello che è il tema di questa stagione dello Sferisterio di Macerata, intitolata ”Libertà e Destino”…
Io credo che noi tutti abbiamo un “destino”, un cammino che ci è suggerito, ma allo stesso tempo abbiamo anche la libertà di poter percorrere o rifiutare ed ogni decisione porta inevitabilmente delle conseguenze. Se non si riconosce il proprio destino o ci si illude di averne un altro o, peggio ancora, si rifiuta il proprio imponendosi un destino artefatto questa libertà viene poi pagata a caro prezzo. A questo punto si insinuerebbe anche il “capriccio”, ma rischieremmo di entrare in altri campi assolutamente complessi. Io credo che a parte quella divina, vi sia una giustizia nell’ordine dell’energia delle cose. Essere onesti verso se stessi e verso la propria vita necessariamente porta energie positive. Inevitabilmente quando ci si concentra in pensieri negativi, distruttivi, automaticamente ci si compromette e porta a vivere negatività.
Tutto questo ha senso quando si ha una forte consapevolezza di se stessi e su quelle che sono le nostre interazioni nei confronti del mondo in cui interagiamo… non è poi così scontato…
Certo! Io credo che ognuno di noi debba trascorrere con tutta onestà un periodo di riflessione con sé stesso, ma condivido il fatto che non ci sia nulla di scontato in questo. Conoscersi, avere un contatto intimo con il proprio sentire è quanto di più raro oggi e nella mia vita conosco moltissimi che non hanno mai percorso questa strada e che non vengono nemmeno sfiorati dalla preoccupazione di farlo… e probabilmente vivono una vita più serena di tanti.
Questo suo sentire le cose mi fa venire in mente, e non credo a caso trovandoci nelle Marche, echi leopardiani… gli uomini primitivi, gli umili, il fanciullino e gli antichi sono felici perchè più vicini alla natura, quindi ignorano il loro reale stato…
Un poeta che ho amato moltissimo e che continuo ad amare. Io non posso che però rifuggire dall’inconsapevolezza del sapere: devo conoscere, anche a scapito di una vita serena, perché lo ritengo un dovere dell’essere umano. Io aggiungerei che mi ritrovo molto nel pudore dei propri pensieri che non è essere asociali, ma è un pudore che da una grande spiritualità che va protetta e che quindi non va necessariamente…
Mercificata…(e mi viene in mente subito Kavafis “per quanto sta in te: non sciuparla (la vita) nel troppo commercio con la gente con troppe parole in un viavai frenetico….”)
Assolutamente!
Nel suo processo creativo, è stato mai influenzato dall’idea di creare qualcosa di riconoscibile al suo stile? In poche parole, è mai rimasto intrappolato dall’idea artistica che lo spettatore è abituato a riconoscerle?
Farei una doverosa premessa: io in teatro non ho mai fatto pesare un ruolo o un’opportunità. Vivo in maniera sempre molto paritetica con tutti i miei collaboratori la creazione di uno spettacolo. Per questo ho sempre pensato che le mie idee debbano emergere dai miei lavori e che non sia obbligatorio stupire la gente con artifici macchinosi o scelte forti. Se si hanno delle idee queste poi pagano sempre ed il mio lavoro e la mia figura pubblica non hanno mai avuto bisogno di scelte visivamente forzate. Trovo che le mie idee abbiano un valore oggettivo che esprimo in termini di normalità. Io ho sempre fatto comunque delle scelte consapevoli e sono una persona che esige sempre molto da se stesso. Sono il critico più feroce del proprio lavoro e per questo motivo, nel tempo, ho imparato a non dare troppo peso alle recensioni, soprattutto a quelle che non hanno nessun intento, se non quello di distruggere un personaggio o uno spettacolo attraverso esso. In verità ad oggi sono stato una persona molto fortunata, non ho avuto mai un fiasco o contestazioni di genere. Alcuni miei colleghi cercano in verità appositamente di superare i limiti perché nella contestazione ricercano quella visibilità che in altro modo non otterrebbero. Vede, io amo molto il mio lavoro, amo quello che faccio ed ogni cosa che faccio lo faccio, oltre che per il rispetto che porto per il pubblico, anche per il rispetto che porto verso me stesso. Per questo motivo io seguo sempre umilmente la mia strada e, se alle volte non sono corrispondente con quello che il pubblico si aspetta da me, trovo spunto in questo per riflettere e crescere sotto tutti i punti di vista.
Io accetto le critiche quando sono articolate, costruttive e provenienti da persone che stimo. Le confesso che già dopo la prima trovo sempre tantissime cose da cambiare, da integrare quindi mi rendo conto che è assai difficile valutare quello che ho realizzato.
Da dove prende ispirazione per i suoi nuovi allestimenti?
Io mi sono avvicinato alla lirica dopo lo studio in Conservatorio (come tenore) ed ho coniugato il canto e l’opera in genere con la mia fortissima passione per la storia dell’arte, l’architettura. Io sono nato e vissuto a Venezia ed ho avuto quindi l’opportunità di vivere in una delle città artisticamente più belle al mondo. Sono sensibile a quella bellezza che a mio avviso ancora rimane assai attuale: prendo spunto dalla storia, dall’arte e da tutto quello che fa parte del mio patrimonio culturale. Ho sempre costruito i miei spettacoli in maniera trasparente. Il teatro deve essere chiaro, solare, logico e razionale, senza alcun tipo di elucubrazione recondita. Ci si deve sempre rapportare con rispetto a questa forma di espressione. Una deferenza che, anche nel passato, è venuta a mancare e ha lentamente portato allo svilimento di questo genere.
Adesso non è più tempo di artifici volgari, bisogna, come dice il maestro Pizzi, perseguire l’idea di un Teatro “etico” che abbia una connotazione di responsabilità civile superando quello che per cinquant’anni è stato esclusivamente un teatro politico. Dobbiamo perseguire un teatro formato da una forza di talenti e magari anche giovani e capaci e non solo di raccomandati o segnalati politicamente per determinati ruoli. I giovani sono la forza di questo cambiamento e bisogna anche non temere di formare all’interno delle Accademie questa nuova generazione. Io ho personalmente avuto studenti che da soli hanno da poco intrapreso un loro percorso artistico anche in Teatri e realtà artistiche importanti e ne parlo con profondo vanto e grandissima soddisfazione. Non bisogna temere di condividere. Noi per primi poi siamo responsabili dei fondi che ci vengono dati per fare teatro e questo vuol dire concepire e creare spettacoli che durino nel tempo, che possano girare e che non muoiano in sterili autocelebrazioni alla ricerca di disperate originalità o stranezze di forma.
Come si riconoscono una bella scenografia e una bella regia? Esistono per lei dei parametri oggettivi?
Chiaramente si. Mi viene in mente Bernini che, nella sua figura di architetto e decoratore, urbanista, etc., fu a tutto tondo un vero e proprio “ἀρχιτέκτων” nel senso etimologico della parola appunto e cioè “primo artefice”, primo tra gli operai. Colui che coordina, che vigila, che immagina e progetta. In quest’ottica, quando la coordinazione è assente in una scenografia ed in una regia, quando è male eseguita, mal progettata, quando non è illuminata e non funzionale e quando non è fortemente caratterizzata e potenzialmente presa ed applicata a qualsiasi altra opera, allora è per me oggettivamente una regia ed una scenografia poco interessante. Io su questo ho una visione molto classicista dell’opera e dell’architettura .
Molti ricercano la novità di un nuovo linguaggio, per questo motivo spesso risulta incomprensibile. Io non credo in questa esigenza. Il nostro è un linguaggio figurativo che è nato e si è formato grazie a dei geni assoluti e non trovo la necessità di concepirne di nuovi ed incomprensibili. Il nostro compito è solo quello di recuperare e “spolverare” in maniera non tanto moderna quanto contemporanea un linguaggio che può aiutare a fare un teatro comprensibile. Si può trattare sempre uno stesso tema registico, ma sempre con un accento diverso. Questa la genialità ed il talento di un buon architetto del teatro.
Chi è nel 2011 il maggior fruitore dell’Opera Lirica in Italia secondo lei?
Io credo il ceto borghese dai cinquanta ai sessant’anni. Io mi batto spesso per svecchiare l’opera ma il problema è che dovrebbe essere lasciata in mano ai giovani invece è in mano ancora a persone che rappresentano una generazione passata e che non conosce e non vive l’attualità. Io cerco nel linguaggio che conosco di rendere sempre i miei allestimenti attuali, ma senza mai trasfiguarli all’eccesso. Bisogna conoscere e vivere questa generazione per poi poter portare in scena ciò che accade nel mondo. Io faccio opera perché sono nel mondo, non per estraniarmene.
Quando si spengono le luci del palcoscenico, chi è Massimo Gasparon?
Io sono una persona normalissima e fortunatamente vivo la mia notorietà in maniera molto ironica e non mi prendo mai troppo seriamente. Nel tempo poi ho avuto modo di bilanciare il mio lato privato da quello pubblico ed ho imparato a dare del mio lavoro il giusto peso. Noi che lavoriamo nella lirica siamo poi meno visibili rispetto agli attori del cinema o della televisione, per cui riesco più facilmente a “mimetizzarmi” nella vita di ogni giorno.
Ho posto la stessa domanda al Maestro Pizzi e vorrei porla anche a lei Maestro. Se potesse avere come per magia la possibilità di passeggiare con se stesso, ma da bambino, mano per la mano, cosa gli racconterebbe del futuro che dovrà affrontare?
Ma io direi che probabilmente avevo già intuito tante cose, ma avevo dubitato della mia intenzione, ascoltando troppo forse gli spunti che il mondo intorno a me mi dava. Se potessi dirmi qualcosa, beh direi di perseguire il proprio sogno, di non dubitare e di fidarsi di più del proprio sentire. Io sono stato sin da piccolo abbastanza consapevole di me stesso e delle mie potenzialità, però mi suggerirei di perseguire il cammino che già sentivo nel profondo. Questo è quello che mi permetterei di dire a tutti coloro che desiderano fare questo lavoro. Per il resto, non ho rimpianti e se potessi tornare indietro farei tutto quello che ho fatto.