Napoli, Teatrino di Corte: “Il marito disperato” di Cimarosa

Napoli, Teatrino di Corte del Palazzo Reale, Stagione Lirica del Teatro San Carlo
“IL MARITO DISPERATO”
Dramma giocoso in tre atti su libretto di Giambattista Lorenzi
Musica di Domenico Cimarosa
Gismonda MARIA GRAZIA SCHIAVO
Eugenia MARIA  LAURA MARTORANA
Dorina ANNALISA  STROPPA
Corbolone BRUNO PRATICO’
Valerio YIJIE SHI
Castagnacci ALFONSO ANTONIOZZI
Il conte Fanfalucchi FILIPPO MORACE
Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli
Direttore Christophe Rousset
Regia Paolo Rossi
Scene Nicola Rubertelli
Costumi da un’idea di Paolo Rossi
Nuovo allestrimento del Teatro di San Carlo
Napoli, 16 dicembre 2011
Le varie possibilità espressive della regìa lirica dispiegano, talvolta esaltandone, talvolta denigrandone i contenuti, l’eccezionale connessione degli elementi caratterizzanti il fatto teatrale. Ebbene, le scelte registiche,  una volta compiute, devono essere portate avanti nella consapevolezza di questa imprescindibile connessione funzionale. Paolo Rossi col suo Marito disperato, sembra aver colto tale accezione e con le sue scelte, senza dubbio  sui generis, esilaranti, irriverenti,  ha esaltato, a suo modo, i sapori della partitura e del libretto settecenteschi e del palato, talora fine, talora approssimativo, del pubblico partenopeo.
L’allestimento sancarliano dell’opera Il Marito disperato di Domenico Cimarosa, per l’appunto, realizzato in coproduzione con la Fondazione Campania dei Festival, apre il ciclo Progetto Napoli -Regione Campania per il recupero del repertorio napoletano settecentesco. Un recupero che acquista valore grazie all’ospitalità delle Muse, severe e vigili, dell’appena ristrutturato Teatrino di corte del Palazzo Reale e che coinvolge, in primo luogo, la partitura stessa dell’opera.
Ivano Caiazza, revisore della partitura, riesuma direttamente dal manoscritto originale conservato nella Biblioteca del conservatorio San Pietro a Majella, oltre al dialetto e all’orchestrazione, manomessa negli anni Settanta con cambiamento di armonie, la sinfonia, le code e le introduzioni strumentali. Un atteggiamento, questo, di certo stampo filologico che si oppone alla resa scenica che coglie l’allegra e “compiaciutamente disperata” combriccola di omiccioli e donnine in un villaggio-vacanze alquanto sgangherato.
Le scene, firmate da Nicola Rubertelli, cogliendo appieno il triste stato economico attuale, non sono altro che la risultante di un assemblaggio di altre scenografie.
Paolo Rossi, alla sua seconda regia lirica al San Carlo (si era già cimentato nel 2010 con Il matrimonio segreto), fa scaturire l’ambientazione dalla prima didascalia della partitura «In un grazioso villaggio»: ebbene, dal grazioso al caotico villaggio vacanze, il passaggio è quasi immediato per una mente vivace come quella dell’attore milanese, se al tutto si sottende una comunanza di intenti, situazioni e disperazioni vere o presunte che siano.
L’irriverenza del regista, attore in scena, prima in qualità di prologo– forse dovuto, forse superfluo- poi come didascalia itinerante, sembra sposarsi (mai termine fu più appropriato) con il libretto del Lorenzi, anzi, le trasposizioni post moderne sembrano,  per certi versi, esaltarne le sfumature stilistiche e psicologiche. I costumi, ideati dallo stesso Rossi, soprattutto quelli indossati da Don Corbolone e dal marchese, al pari delle scene si presentano come accostamenti poco probabili ma ben riusciti e accentuano il carattere buffo e scombinato dei personaggi: il maritone ipocondriaco indossa una maglia della squadra del Napoli, il marchese, con le sue tutine, pinne, fucili ed occhiali, appare come il più ridicolo su tutti, mascherina tipizzata dell’uomo “over anta”, dalle ossessive attenzioni  per giovani fanciulle (non senza una mal celata strizzatina d’occhio del Rossi per taluna compagine antropologica italiana, ben nota alle cronache recenti).  Ma la più efficace caratterizzazione, da un punto di vista attoriale e scenico, è sicuramente quella del conte Fanfaluchi, terzo e degno rappresentante della categoria maschile asinesca e costruita, debole e vuota.
Rossi trasforma il conte nel più belloccio dei capo-villaggio cogliendone  dettagli, ispirati sempre dai contenuti del libretto, davvero esilaranti: lo sguardo che ha seminato molteplici vittime d’amore e l’auto-piacenza del conte sono resi scenicamente attraverso un’accentuata abbronzatura “da occhiali da sole”, che tra l’altro, costituiscono un elemento scenico usato dall’attore con grande incisività comica. Lo sguardo vanesio è abbinato ad un sorriso finto, tipico dei personaggi stereotipati da Commedia dell’Arte, tanta cara al Rossi, e/o da villaggio vacanza.
La dimensione spettacolare, quasi cinematografica, è, senza dubbio, accentuata dalla presenza del direttore, Christophe Rousset, che nella bellezza del suo completo di velluto blu, sembra uscito dalla pellicola di cui lui stesso ha curato la colonna sonora. La sua conduzione appare  tacita ed enfatica al tempo stesso, scarna e composita, alimentata dai suoi respiri sonori d’attacco che arricchiscono l’andamento esecutivo dell’orchestra, preciso, sebbene debole in alcuni punti, chiaro soprattutto nei fiati, rigoroso sebbene troppo fioco e poco concitato negli spunti salienti della pagina musicale cimarosiana.
Concitazione che resta, dunque, affidata alla successione repentina delle scene, al caos performativo e alla bravura attoriale dei cantanti. Su questi ultimi sembra avere la meglio, anche a giudizio del pubblico in sala, la giovane soprano Annalisa Stroppa, Dorina, che cattura l’attenzione dello spettatore (e di qualche orchestrale), e per la bellezza della forma fisica, accentuata da un vestito colorato e succinto, e per quella del suo strumento vocale: un timbro caldo, avvolgente, profondo, un’esecuzione omogenea e fluida, un’articolazione piacevole e chiara, un’attorialità attenta, irriverente, ma mai volgare, divertente e divertita. Il pubblico guarda, ascolta e, infine, apprezza con forti applausi, senza dubbio, i più calorosi. Eppur convince, la Gismonda della Schiavo, valida interprete partenopea, che al capoluogo campano deve formazione e debutto. La sua interpretazione, di ottima fattura, nonostante una debolezza del registro basso e centrale, coglie il picco più intenso nel finale del secondo atto. Nell’esecuzione dei versi a lei destinati, risoluzione della vicenda amorosa «se mai turbo il tuo riposo, di un marito così degno che mi privi il ciel ancor, ah il ciel or or», si evince una sincera padronanza dello strumento vocale e nella zona acuta un fraseggio melodioso, delicato e particolarmente elegante.
La prestazione meno piacevole del cast femminile è quella di Maria Laura Martorana, che qui veste i panni di Eugenia, presentata come una sorta di “Mortisia” dal furore uterino. Il  ruolo è molto ben interpretato, con ironia e maestria scenica,  anche se, in alcuni momenti, sembra castigare i presenti, più che con i colpi della sua frusta, con una condotta vocale poco gradevole dovuta ad un centro filiforme con poco appoggio e all’esecuzione di acuti troppo striduli. Aspettiamo di apprezzarla nel repertorio pirotecnico nel quale impone sicuramente il suo dominio vocale. Degli interpreti maschili si è fatto cenno in merito alla caratterizzazione del personaggio, voluta, sì dal Rossi, ma accolta con visibile favore e divertimento dagli stessi.
Il Don Corbolone del Praticò, grande interprete dei ruoli di baritono buffo con all’attivo più di cento ruoli, convince, forse, più per le dinamiche attoriali che per quelle canore: un’articolazione non sempre chiara, un fraseggio un po’ appesantito, costringono l’ascoltatore ad uno sforzo ulteriore, già dovuto alla presenza del dialetto napoletano arcaico. Il giovane tenore, Shi Yijie (Valerio) da un punto di vista scenico, personifica benissimo il “semplice pupetto” cantato da Dorina nella sua aria  (atto primo, scena VIII) forse, più che semplice, appare “spaesato”, in tutto quel marasma caldamente meridionale. La sua stessa vocalità nella pièce, risuona, in concomitanza degli sporadici acuti affidati dalla partitura al suo ruolo, come una “rivelazione”. La condotta, spesso anonima, è caratterizzata, infatti, da una forte discrepanza: il registro centrale sembra quello di una voce leggera, quello acuto è invece, fortunatamente, corposo ed intenso. Di Filippo Morace, si è già sottolineata la grande bravura in qualità di attore,  forse il migliore in scena, sotto quest’aspetto. La sua performance canora è buona, ottima se considerato lo sforzo fisico a cui le scelte registiche lo sottopongono. Bene anche Alfonso Antoniozzi, Marchese Castagnacci . Alla fine della rappresentazione, alle muse vigili e severe è, forse, spuntato un sorriso ironico, disincantato e, perché no, anche un tantino compiaciuto, per il fatto che tra “il mondo che fu e il mondo che è”-usando un’espressione di Guido Pannain- le distanze possono, talvolta, essere più brevi di quanto si immagini.
Foto Francesco Squeglia – Teatro di San Carlo di Napoli