Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2012
“LA DAMNATION DE FAUST” (La dannazione di Faust)
Légende dramatique in quattro parti e dieci quadri su libretto di Hector Berlioz, Almire Gandonniére e Gerard de Nerval dal Faust di Goethe
Musica di Hector Berlioz
Faust GIANLUCA TERRANOVA
Méphistophélès LUCIO GALLO
Marguerite ANKE VONDUNG
Brander ENRICO IORI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore d’orchestra Roberto Abbado
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Terry Gilliam
Scene Hildegard Bechtler
Costumi Katrina Lindsay
Regista collaboratore/movimenti coreografici Leah Hausman
Luci Peter Mumford
Video Designer Finn Ross
Video artist Jane Michelmore
Nuovo allestimento in coproduzione con l’English National Opera-ENO e la Vlaamse Opera
Palermo, 26 gennaio 2012
Se tra i miti moderni dovessimo scegliere quello che incarna con maggior forza lo spirito germanico, la nostra scelta ricadrebbe su Faust. Merito innanzitutto di Goethe, se siamo portati a riconoscere nello Streben faustiano l’essenza stessa del razionalismo tedesco. Merito pure delle numerose versioni che nella letteratura, nell’arte e nella musica tale mito ha generato, sancendone una diffusione a carattere universale. Al nutrito gruppo delle trasposizioni musicali appartiene anche La Damnation de Faust di Hector Berlioz, “légende dramatique” in quattro parti, concepita a partire dal 1829 e rappresentata a Parigi nel 1846. Opera inconsueta questa di Berlioz, che non si basa sulla normale successione di eventi e fatti, bensì su quadri pressoché slegati, ognuno con proprio carattere ed atmosfera. Quale migliore occasione per riassumere allora, in una vertiginosa girandola di immagini e visioni, le principali tappe della storia tedesca? È questo l’assunto da cui è partito Terry Gilliam, regista cinematografico di fama internazionale e autore dello spettacolo in scena al Teatro Massimo di Palermo. Una coproduzione con la ENO-English National Opera e con la Vlaamse Opera di Anversa e Gent, che già nel maggio 2011, in occasione delle rappresentazioni al London Coliseum, aveva riscosso grande successo di pubblico.
Detto questo era prevedibile che i riflettori fossero tutti puntati sulla regia, ancor prima che sui cantanti o sulla musica. La presenza a Palermo del regista statunitense costituisce infatti un evento eccezionale, a corollario del quale nei giorni scorsi si è anche svolta una mini-rassegna, con la proiezione di alcuni suoi film presso la sala del cinema ABC e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ai Cantieri Culturali alla Zisa, dove Gilliam ha anche incontrato i Palermitani (soprattutto i giovani) parlando diffusamente del proprio lavoro. Un modo intelligente per introdurre il pubblico nell’universo visionario dell’ex Monty Python, in questo caso alla prima prova in campo operistico. E senza dubbio Gilliam è intervenuto in modo incisivo, arrivando a trasformare lo spettacolo inaugurale della stagione 2012 in qualcosa di assolutamente personale, nella “sua” Damnation. Tuttavia è lecito chiedersi in che rapporto questa Damnation si ponga con Berlioz e in che misura la lettura registica vada ad intaccare, o in alcuni casi a stravolgere, la vicenda originale.
Ripercorrere un secolo di storia tedesca significa poi avere a che fare con un materiale affascinante, ma allo stesso tempo talmente magmatico da risultare insidioso. Ne è consapevole lo stesso Gilliam, che grazie all’apporto di un superbo team di professionisti – Hildegard Bechtler per le splendide scenografie, Katrina Lindsay per i variopinti costumi, Leah Hausman per i movimenti coreografici, Peter Mumford per gli effetti di luce, senza dimenticare Finn Ross e Jane Michelmore, rispettivamente video designer e video artist – confeziona una rappresentazione decisamente curata in ogni dettaglio, attentamente pensata, ma non per questo sterilmente oleografica. L’uomo vitruviano sembra esserne la chiave di volta, oltre a costituirne il punto di partenza: decisa espressione della razionalità umana, nella quadratura del cerchio pian piano si scompagina e si capovolge, rivelando l’impossibilità dell’uomo di comprendere e soprattutto dominare gli eventi naturali.
L’idea di fondo, nella sua essenza, risulta illuminata e a nostro parere abbastanza aderente alla musica di Berlioz, che agli stilemi propri dell’opera romantica associa anticipazioni della modernità, sapientemente mescolati ad arcaismi, a profili musicali ripresi dal passato. Una musica quindi che in un certo senso si colloca al di fuori del tempo e che, nel proprio modo di riassumere il passato, getta un importante sguardo al futuro (proprio di questi giorni è l’uscita del saggio di Inge Van Rij nel “Cambridge Opera Journal”, intitolato Back to (the music of) the future: Aesthetics of technology in Berlioz’s ‘Euphonia’ and ‘Damnation de Faust’). Ben venga allora l’immaginifico viaggio proposto da Gilliam, che della prima metà dell’Ottocento recupera le atmosfere Sturm und Drang, i paesaggi mozzafiato di Caspar David Friedrich, conducendoci alle tensioni di fine secolo, allo scoppio della prima guerra mondiale e all’avvento del nazismo. Ma se tutto questo sembra funzionare nelle prime due parti, così non è nel resto dell’opera, a partire dall’entrata di Marguerite, quando Gilliam costruisce e sovrappone un nuovo nucleo narrativo, una rilettura in chiave nazista che stravolge pesantemente il senso della vicenda.
I momenti più ispirati sul profilo registico sono dunque quelli che pongono al centro la natura e il profondo senso di solitudine e smarrimento che l’individuo prova di fronte ad essa: dalle visioni intimistiche e crepuscolari della I Scena – il pensiero corre al citato Friedrich, ma si aggiungono anche suggestioni tratte da Arnold Bocklin, Carl Gustav Carus e dalla Walpurgisnacht di Albert Zimmermann – all’irriverente ronda contadina, anch’essa rimodellata su spunti pittorici (David Ryckaert in modo particolare, oltre a ricordarci le inquietanti scorribande dei diavoli di San Nicola della tradizione tedesca) ai bagliori sanguigni che accompagnano la prima guerra mondiale – ancora Friedrich e il suo Sonnenuntergang – alle presenze wagneriane durante la scena del sogno di Faust, trasportata da Gilliam a Berchtesgaden. E le allusioni proseguono, quasi irrefrenabili, attraverso l’espressionismo di Otto Dix e George Grosz, presenti nelle scene come nei costumi (uno di questi riprende fedelmente l’Anita Berber di Dix), passando per la spartizione grottesca della torta/mondo sulle note della “Marche hongroise” (citazione di The Plumb-Pudding in Danger di James Gillray) fino ai documentari propagandistici girati negli anni ‘30 da Leni Riefenstahl.
La struttura ondivaga di musica e libretto nelle prime due parti si presta quindi all’interpretazione onirica, in prospettiva storica, proposta dal regista. Nella terza parte, però, diventa stringente il confronto con la realtà, e la realtà offerta ci lascia perplessi. Il palcoscenico è di continuo popolato da gerarchi nazisti, Marguerite trasformata in un’ebrea che si finge ariana, e la ricapitolazione temporale durante il “Menuets des follets” (senza dubbio costruita con sapienza) ha ben poco a che fare con Berlioz. Anche la scena della deportazione – che ha il merito di ricordarci ciò che mai deve essere dimenticato, a poca distanza dalla Giornata della Memoria – fa perdere di vista il vero motivo dell’imprigionamento di Marguerite, vale a dire il matricidio, nucleo essenziale della narrazione. Non mancano però i momenti ingegnosi, allorché ritorna la natura aspra e selvaggia, ancor più impenetrabile rispetto all’inizio. E sembra un cerchio il percorso tracciato: sullo sfondo di un panorama cupo e desolato – il richiamo è ancora a Friedrich e a Das Eismeer, attraverso spunti che vanno indietro fino al paesaggio dalla Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci – sulla sinistra giacciono i resti del cubo/rifugio di Faust. Pesante fardello all’inizio dell’opera, ma allo stesso tempo unico riparo contro la bestialità infernale che lo circonda. In esso si trincera, ma invano; e a ben vedere, pur essendo costellato di formule matematiche, è un cubo sghembo che adotta una prospettiva distorta. Nulla di strano se alla fine ne vediamo soltanto i resti, probabilmente frutto di una conflagrazione bellica.
In un’operazione del genere la componente musicale sembra passare in secondo piano, come anche le prove dei cantanti; eppure sono queste a formare il pilastro dello spettacolo, a garantirne l’efficacia, partendo dall’abile conduzione di Roberto Abbado, assolutamente calibrata, sicura e precisa, in grado di sprigionare tutte le potenzialità di una partitura di certo non facile. Contribuisce anche l’orchestra del Teatro Massimo, in ottima forma, a differenza della compagine corale che in molte occasioni ha deluso, fatta eccezione per il cocktail party e per l’esibizione olimpica, quando ha mostrato maggiore compattezza e dinamismo vocale (oltre che corporeo).
Nel ruolo di Faust, Gianluca Terranova rivela un timbro abbastanza chiaro ma poco modulato, con imprecisioni talvolta scoperte; a suo sfavore gioca senz’altro l’impegno vocale che gli viene richiesto, non indifferente e protratto per la maggior parte dell’opera. Lo si avverte specialmente nel lungo duetto con Marguerite (Scena XIV) quando Terranova si trova costretto ad affrontare le difficoltà di cui è costellata la musica, risolvendole in parte e con alterna efficacia. Al contrario l’aria di apertura della parte terza (“Merci, doux crépuscule!”) per il profilo disteso si rivela più adatta alle qualità vocali del tenore romano. Convincente l’interpretazione del mezzosoprano tedesco Anke Vondung, morbida nell’accento, fresca e ingenua, come Marguerite dovrebbe essere: nella Chanson gotique “Le Roi de Thulé” manifesta poi una grazia canora pressoché attenta alle sfumature – per quanto non valorizzata dalla regia, a causa anche degli inopportuni movimenti delle truppe naziste durante la Kristallnacht – e ancor più nella celebre romanza “D’amour l’ardente flamme”, fra i momenti musicali più intensi dell’opera.
Sui tre svetta il Méphistophélès di Lucio Gallo, di adeguata presenza scenica, dalle inflessioni decise e coinvolgenti. Attorniato da anime dannate in perenne contorsione, è il burattinaio che intende muovere i fili dell’universo. Tutti a segno i suoi interventi, dalle due Chansons nella taverna di Auerbach, a “Voici des roses” della Scena VI. Ma è soprattutto la totale adesione alla fisionomia espressionista che Gilliam gli confeziona ad attirare e appassionare. Uscito letteralmente dai quadri di Dix, Méphistophélès sembra fuori posto in una umanità nella quale, in fin dei conti, si riconosce e al di sopra della quale non può collocarsi. Suo terreno eletto è il “Pandemonium”, il circo grottesco di figure-giocattolo con cui ama dilettarsi. Ad esso arriva in sidecar, assieme a Faust, nella stupefacente “Course à l’abîme” della Scena XVIII, vero e proprio colpo di genio, quando è il vorticoso scorrere delle immagini sul video a creare il senso di movimento, tra spogli profili di alberi disseccati (che tanto ci ricordano Egon Schiele) e il volo minaccioso degli uccellacci neri, trasformati in aerei della Luftwaffe. Non più gli affascinanti misteri dell’universo e della natura, “che tanto distraggono l’umanità”, bensì la certezza di un inferno in terra, al quale forse è possibile sottrarsi. Ma si sa, finché ci sarà un Faust che vorrà provarci, il diavolo sarà costretto a scomodarsi.
Foto Corrado Lannino – Teatro Massimo di Palermo