Londra, Royal Albert Hall
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni.
Musica di Giuseppe Verdi
Il re d’Egitto DANIEL L.WILLIAMS
Amneris TIZIANA CARRARO
Aida INDRA THOMAS
Radamès MARC HELLER
Ramfis STANISLAV SVHETS
Amonasro DAVID KEMPSTER
Una sacerdotessa CATRIN AUR
Un messaggero JONATHAN STOUGHTON
Orchestra e Coro Royal Philharmonic
Direttore Andrew Greenwood
Maestro del Coro Robin Newton
Regia Stephen Medcalf
Scene e Costumi Isabella Bywater
Coreografia Sarah Fahie
Luci Andrew Bridge
Nuovo alllestimento della Royal Albert Hall
Londra, 1 marzo 2012
La nuova produzione di Aida, in scena fino all’11 marzo alla Royal Albert Hall, si presenta come uno spettacolo tradizionale, nonostante l’escamotage messo in atto durante il preludio. Già scorrendo il libretto si nota, infatti, oltre ai noti nomi dei personaggi egizi un’intromissione tutta inglese, dal momento che figura anche un inaspettato personaggio, non cantante, con il nome di Amelia Edwards. L’intrusa introdotta dal regista Stephen Medcalf come pretesto per avviare la vicenda dell’opera, è un personaggio d’epoca vittoriana: giornalista, scrittrice ed egittologa, Amelia Edwards. Questa sorta di “Indiana Jones” al femminile, durante un viaggio lungo il Nilo nel 1873, osservando le processioni e storie scolpite sulle mura dei palazzi, scrisse: “sicuramente deve esserci una notte, durante l’anno, in cui queste figure prendono vita”. Con questa frase come spunto drammaturgico, vediamo in scena l’’egittologa, in abiti ottocenteschi, che traccia alcuni schizzi delle rovine attorno a lei, accompagnata da archeologi che fanno emergere da uno scavo uno scheletro, “risvegliando” i protagonisti di Aida che emergono dal regno di Anubi. Un’impostazione registica che si distacca quindi dalla tradizione ma sicuramente la figura di Amelia Edwards, se potrebbe essere giustificata all’inizio, di certo risulta alquanto inappropriata nel proseguo della narrazione, quando, talvolta, pare persino intralciare lo svolgersi della vicenda o comunque distrarre lo spettatore da essa.
La scenografia, a pianta centrale, firmata da Isabella Bywater risulta alquanto funzionale ma non visivamente di forte impatto e di poca profondità, tutta in tonalità bianco-sabbia; questa stessa impostazione la si ritrova nei costumi, bianchi ed essenziali, sempre firmati dalla designer inglese, che conferisce carattere solo alla veste di Aida, eccedendo in questo caso con il colore. A sostenere questa ambeintazione piuttosto anonima e piatta interviene un intelligente utilizzo di proiezioni video che conferiscono spessore all’ambiente, diventando prima letto del Nilo, poi tempio e palazzo. I movimenti coreografici di Sarah Fahie affidati a non ben idenficati ballerini e corpo di ballo sono alquanto banali e i ballerini troppo spesso fuori sincrono.
Un’ulteriore particolarità di questa produzione è conferita dalla decisione di posizionare l’orchestra sul fondo della scena: questa scelta non interferisce con la vista, risultando anzi ideale durante la scena del trionfo. Andrew Greenwood concerta con veemenza la Royal Philharmonic Orchestra, che si dimostra all’altezza della partitura verdiana nello svolgimento di tutti gli atti. Complessivamente positiva la prova del coro diretto da Robin Newton, se escludiamo una certa qual mancanza di omogenità delle voci maschili, in particolare nell’ultimo atto. E veniamo al cast. Il soprano Indra Thomas, Aida, ha dato prova di possedere un’ottima tecnica e dizione, è dotata di un buon fraseggio e sfoggio di colori. Purtroppo non è stata altrettanto convincente sia nel controllo del registro acuto, così come in quello più centrale non sempre perfettamente a fuoco. In merito alla presenza scenica, nonostante un certo impeto drammatico, la sua è stata un’Aida piuttosto statica. Nel ruolo di Radames abbiamo trovato il tenore Marc Heller. Scenicamente ed emotivamente inerte, Heller non riesce a conferire spessore all’eroe egiziano, nonostante sia dotato di uno strumento all’altezza della partitura. La dizione poi era alquanto problematica così come ha mostrato delle incertezze ritmiche, soprattutto nei primi due atti. A brillare sul palco del Royal Albert Hall è stata la notevolissima Amneris di Tiziana Carraro che ha regalato al pubblico un’interpretazione più che convincente, sia per la drammaticità e profondità conferita al personaggio, che per un controllo pressochè totale della voce, potente ma anche duttile e omogenea in tutti i registri.
Notevole scenicamente, ma assai meno sul piano vocale, il Ramfis del basso Stanislav Shvets. Peggiore di Radames sul piano della dizione italiana. Stessa cosa vale per il Faraone di Daniel Williams. Ottima prova per il baritono David Kempster, un Amonasro dotato di uno strumento vocale potente e un fraseggio veemente e incisivo. Corretto il messaggero, Jonathan Stoughton, che ha saputo essere coinvolgente nonostante la brevità della sua apparizione. Non lascia invece traccia di sé la sacerdotessa di Catrin Aur. Nel complesso dunque una produzione che desta qualche perplessità per il Royal Alber Hall, che sembra aver adottato una strategia commerciale, caratterizzata dalla scelta di titoli di grande richiamo per il pubblico, ma purtroppo non sostenuta da scelte artistiche altrettanto adeguate a raggiungere il potenziale di vendita della RAH. Foto Paul Sanders – Royal Albert Hall