Palermo, Stagione Lirica 2012
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry MARIELLA DEVIA
Alfredo Germont STEFAN POP
Giorgio Germont SIMONE PIAZZOLA
Flora Bervoix LAURA CHERICI
Annina PATRIZIA GENTILE
Gastone de Letorieres BRUNO LAZZARETTI
Barone Douphol GIOVANNI BELLAVIA
Marchese d’Obigny ARMANDO CAFORIO
Dr.Grenvil MANRICO SIGNORINI
Giuseppe MARCO PALMERI
Un commissionario / Domestico di Flora GIANFRANCO GIORDANO
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Carlo Rizzi
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Henning Brockhaus
Scene Josef Svoboda
Costumi Giancarlo Colis
Coreografia Emma Scialfa
Luci Henning Brockhaus, Fabrizio Gobbi
Allestimento del Teatro Sferiterio di Macerata, 1992
Palermo, 29 febbraio 2012
Si dispiega come un tridimensionale libro animato, La traviata che dal 21 al 29 febbraio è andata in scena al Teatro Massimo di Palermo. Le due pagine sono costituite dal piano di calpestio e da un gigantesco specchio; quest’ultimo, durante il preludio, viene sollevato e posto in obliquo, rivelando al pubblico il pavimento e offrendo di fatto un punto di vista alternativo (non solo più ampio) di ciò che avviene sul palcoscenico. Si crea così “un’opera di rispecchiamenti”, nell’affascinante definizione di Henning Brockhaus che di questo allestimento firma la regia. Ma l’impronta autoriale che più si avverte – e che costituisce il punto di forza dello spettacolo – è quella di Josef Svoboda, lo scenografo ceco al quale si deve la concezione dell’opera, già proposta nel 1992 per lo Sferisterio di Macerata, per la quale era stato insignito del prestigioso Premio “Franco Abbiati”. Sia Svoboda che Brockhaus dimostrano come, anche utilizzando un numero ridotto di oggetti scenici, si possa confezionare uno spettacolo intelligente, raffinato e moderno, che dell’opera di Verdi riesce a offrire un’efficace chiave di lettura, senza tradirne (anzi esaltandone) la drammaturgia.
Quello che qui più emerge è l’aspetto di denuncia sociale, oltre che morale, della vita parigina (e in questo caso la vicenda è spostata agli inizi del Novecento, per mettere in risalto il clima di decadenza e di disfacimento dei costumi). Di questo universo Violetta fa parte, ma allo stesso tempo ne è emarginata. Essa vive la propria condizione in estrema solitudine, e pure i bei costumi di Giancarlo Colis riescono a sottolineare questo aspetto, in particolare l’abito bianco del primo atto che sembra quasi un abito da sposa e che trasforma la protagonista in una più giovane Miss Havisham, tutta chiusa nel proprio dolore e indifferente a ciò che la circonda. Lo specchio, nel momento in cui mostra i teli dipinti che man mano vengono spiegati sul palcoscenico, funge così da fattore di amplificazione di questa solitudine, rivelando gli aspetti più inquietanti dello scintillante e “popoloso deserto che appellano Parigi”. E anche quando la superficie riflettente risulta sommersa dalle figure, con effetti tridimensionali di indubbia suggestione – evidenziati dai bellissimi giochi di luce dello stesso Brockhaus e di Fabrizio Gobbi – l’impressione è sempre quella di angoscia e smarrimento.
A partire dal sontuoso sipario che vediamo nel preludio (e che rievoca il Teatro La Fenice dove l’opera venne rappresentata per la prima volta, con insuccesso, nel 1853) si passa così ai motivi erotici durante la festa del primo atto (che solleticano l’impulso voyeuristico dello spettatore), alla fiorita casa di campagna del secondo, ai fregi architettonici rosso/oro presso la casa di Flora, sino al terzo, dove non vediamo più nulla, se non qualche oggetto e il letto che accoglierà l’agonia di Violetta. Un meccanismo quindi che funziona sempre, ad eccezione dell’inizio del secondo atto, dove la dimora di campagna viene calpestata in tutte le sue parti, creando un effetto abbastanza inverosimile. Invece l’interpretazione del dramma in chiave pittorica rivela pienamente la propria efficacia subito dopo, durante l’incontro tra Violetta e Germont, sullo sfondo di uno splendido prato di margherite, reso mosso dall’arricciamento della tela nella parte inferiore. Le margherite rappresentano la redenzione della protagonista e non a caso appaiono in corrispondenza di “Pura siccome un angelo”, ad equiparare la condizione di Violetta a quella della figlia di Germont: entrambe pure, entrambe redente.
Eppure la redenzione è sottintesa già all’inizio, come se fosse la malattia stessa a liberare Violetta dai propri peccati. La protagonista “ha la morte in seno”, come Leonora ne Il trovatore, e noi lo percepiamo con incredibile forza, grazie alla prova di Mariella Devia. Forte dell’esperienza, il soprano costruisce una Violetta perfetta, dolente e matura, che sa affrontare il dolore con coraggio e che riesce a non perdere mai il controllo, pure nei momenti che sembrerebbero richiederlo (come in “Amami Alfredo”). La voce non ha forse lo smalto di un tempo e ha perso un po’ in volume. E allora? La Devia, con la consueta intelligenza interpretativa, riesce a fare di difetto virtù, supportata dall’attenta conduzione di Carlo Rizzi, e ci offre dei pianissimo straordinari (“Dite alla giovine sì bella e pura”) risparmiando il fiato per i momenti di maggiore intensità emotiva (soprattutto nella cabaletta del primo atto). Il controllo delle risorse vocali è sempre perfetto e l’ascesa verso gli acuti sicura e decisa, sulla base di una tecnica sopraffina, di cui troppo spesso sentiamo difettare le giovani cantanti.
La direzione di Rizzi risulta anch’essa funzionale alla lettura complessiva di Svoboda e Brockhaus, esprimendosi nella scelta di tempi incalzanti per il primo atto e per la seconda parte del secondo, più ampi e distesi per il terzo, con adeguata enfasi dei singoli dettagli. I professori d’orchestra hanno suonato in pullover e maniche di camicia, in segno di protesta contro il direttore artistico Lorenzo Mariani, di cui si richiedono a gran voce le dimissioni, esigendo al contempo “presenza e competenza”, come recitava lo striscione presentato all’inizio dell’opera. Competenza che anche in questo caso i musicisti hanno dimostrato, soprattutto le sezioni degli archi (attentissimi alle indicazioni del direttore e alle sfumature dinamiche della partitura) e le percussioni (incisive e coinvolgenti, in particolare nella seconda parte del secondo atto). Anche il coro ha dato prova delle proprie capacità, rivelando come nel repertorio tradizionale sia in grado di esprimere qualità di coesione e di corretta resa musicale, fatta eccezione per qualche incertezza alla fine del primo atto. All’altezza il corpo di ballo del Teatro Massimo e le coreografie di Emma Scialfa, che hanno reso il senso di vorticosa perdizione, soprattutto durante la canzone di Piquillo.
Il giovane tenore rumeno Stefan Pop, interprete di Alfredo, ha invece suscitato qualche perplessità: il timbro è interessante, la voce ricca di potenzialità, ma in alcuni casi tende a schiacciare i suoni e talvolta si dimostra approssimativo nel passaggio di registro. Si apprezzano però i meritevoli sforzi di resa psicologica, particolarmente evidenti nella scena VIII del secondo atto, durante la lettura della lettera di Violetta, quando è difficile porre attenzione alle sfumature di sentimento del personaggio, cosa che Pop fa egregiamente. Bravissimo il baritono veronese Simone Piazzola. Nel ruolo di Germont rivela una voce imponente, calda, perfettamente calibrata, che arriva a suscitare immediata simpatia per un personaggio solitamente inviso alla maggior parte del pubblico. Il trucco non riesce a celare la giovanissima età, ma Piazzola riesce a recuperare in autorevolezza del timbro e statura scenica. Giustamente strappa l’applauso più lungo e fragoroso (insieme alla Devia con “Addio del passato”), dopo l’eccellente e sentita interpretazione della romanza “Di Provenza il mar, il suol” e la trascinante cabaletta “No, non udrai rimproveri”, che fortunatamente non è stata tagliata, come invece è ancora in uso in molti allestimenti dell’opera. Accanto ai protagonisti, i comprimari hanno pressoché convinto senza particolari eccezioni, con menzione speciale per il Gastone di Bruno Lazzaretti e Laura Cherici nel ruolo di Flora (ma anche bravi Patrizia Gentile interprete di Annina, Giovanni Bellavia nel ruolo di Douphol, Marco Signorini dottor Grenvil, insieme a Pietro Luppina, Armando Caforio, Giovanni Lo Re). Alla fine lo specchio viene collocato in posizione verticale e vediamo riflessi, oltre ai protagonisti, noi stessi, il pubblico. Le luci si accendono ed è chiaro il messaggio: siamo noi, spettatori voyeuristici, a condividere la colpa di quella morte. Ma soprattutto della protagonista condividiamo la solitudine, lo smarrimento, l’inadeguatezza. La condanna di chi subisce la violenza della rinuncia all’amore e che inevitabilmente “moribonda e disillusa, resta sola” (Brockhaus).
Foto Corrado Lannino – Teatro Massimo Palermo
Ilaria Grippaudo