“Der König Kandaules” al Teatro Massimo di Palermo

Palermo, Teatro Massimo, stagione lirica 2012
“DER KÖNIG KANDAULES”
Opera in tre atti, libretto di Alexander Zemlinsky dal dramma Le Roi Candaule di André Gide nella traduzione tedesca di Franz Blei. Ricostruzione e completamento della strumentazione di Antony Beaumont. Edizioni G. Ricordi & Co. München. Rappresentante per l’Italia Universal Musical Publishing Ricordi srl Milano
Musica di Alexander Zemlinsky
König Kandaules PETER SVENSSON
Gyges KAY STIEFERMANN
Phedros NICOLÒ CERIANI
Syphax CRISTIANO OLIVIERI
Nicomedes PAOLO ORECCHIA
Pharnaces JEREMY MILNER
Philebos MATHIAS TOSI
Simias ALEX WAWILOFF
Sebas GIULIO PELLIGRA
Archelaos ALEXEY BIRKUS
Der Koch VENTSESLAV ANASTASOV
Nyssia NICOLA BELLER CARBONE
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Asher Fisch
Regia Manfred Schweigkofler
Scene Manfred Schweigkofler e Angelo Canu
Costumi Mateja Benedetti
Luci Claudio Schmid
Nuovo allestimento
Prima rappresentazione in Italia
Palermo, 16 maggio 2012

Dopo Die Gezeichneten di Schreker e The Greek Passion di Martinů, andate in scena rispettivamente nel 2010 e 2011, un’altra importante prima nazionale ha impreziosito quest’anno il cartellone del Teatro Massimo di Palermo: Der König Kandaules, ultima opera di Alexander Zemlinsky, ideata a partire dal 1935, ma accantonata e rimasta incompiuta per la situazione storica e per le condizioni di salute del compositore, che morirà a Larchmont nel 1942. Il pensiero è andato subito a The Greek Passion, non solo per la comune sorte di opere in prima italiana, ma anche per il ritorno del direttore d’orchestra Asher Fisch – segnalatosi negli ultimi anni quale raffinato interprete wagneriano – che, come nel caso di Martinů, anche per Zemlinsky ha saputo valorizzare la partitura nel migliore dei modi, regalandoci un’esecuzione estremamente partecipe e consapevole dello stile musicale. Rispetto ad altri suoi contemporanei, Zemlinsky infatti scelse di operare all’interno della tradizione, rifiutando la dodecafonia di Schönberg (suo amico, allievo e cognato) ma creando comunque un’opera “ultramoderna” (tale la definì lo stesso compositore) che deve molto a Mahler, ma che guarda anche ai membri della Seconda Scuola di Vienna (in particolare alla Lulu di Berg). In Der König Kandaules non mancano così i passaggi di intenso lirismo, spesso affidati ai legni, così come i cromatismi estenuati e le zone dissonanti, il tutto all’interno di un côté timbrico oscuro e omogeneo, che Zemlinsky riesce a caricare di bagliori continui. Nonostante poi l’imponente organico, Fisch ha mantenuto una trasparenza invidiabile, funzionale alla performance dei cantanti, accanto a momenti di violenza sonora, come alla fine del primo atto o all’interno del terzo.
Il collegamento con l’opera di Martinů si intravedeva anche nella natura prettamente maschile della parte vocale – contrastata da tre voci femminili nel primo caso, in Zemlinsky dalla sola Nyssia – e pure nel tipo di scenografia, un caratteristico piano rialzato, qui creato da Manfred Schweigkofler e Angelo Canu. Ma se in The Greek Passion l’assetto scenico arrivava ad assumere un preciso significato alla luce della vicenda, della musica e della concezione registica, non possiamo dire lo stesso di questo allestimento. In generale la regia di Schweigkofler ci è sembrata povera e fine a sé stessa, come lo erano in molte occasioni i movimenti dei protagonisti, soprattutto di Nyssia nel primo atto. La scenografia si è poi mantenuta pressoché uguale nel corso dei tre atti, con pareti oblique e scomposte nella zona superiore, una lunga scala verso il cielo (poi cambiata di posizione), sagome impalpabili che popolavano il palcoscenico, spostate di frequente ma apparentemente senza motivo. Pure i costumi di Mateja Benedetti ci hanno deluso: la scelta di adoperare colori primari, acidi e smaltati – con il predominio del rosso e di sfumature oro/argento – poteva risultare efficace se associata ad abiti più adeguati al ruolo dei personaggi. Invece mancava persino la differenziazione regale di Kandaules, escludendo il buffo copricapo intessuto di strass che il tenore indossava. Decisamente meglio le luci di Claudio Schmid, calibrate fra i toni del blu e del rosso, che accendevano di sensualità e inquietudine i momenti clou dello spettacolo.
Il gioco di collegamenti con The Greek Passion si ferma quindi a questi tre aspetti, poiché diverso è l’orizzonte estetico dell’opera di Zemlinsky, intrisa di simboli, di un clima decadente e insieme progressista, di implicazioni oniriche e freudiane, perfettamente in linea con l’ambiente culturale della Vienna del primo Novecento. Tutto questo si sviluppa attraverso una vicenda apparentemente distante, la storia di Kandaules e della moglie Nyssia che ad un certo punto il sovrano decide di offrire nella splendida nudità allo sguardo del pescatore Gyges, grazie al potere di un anello magico che rende invisibile chiunque lo indossi. Dopo una notte d’amore fra la regina e l’ex-pescatore, Nyssia (scoperto il tradimento) costringe Gyges a uccidere Kandaules e a prendere il suo posto sul trono di Lidia. Al centro vi è dunque il tema della felicità e di come questa vada intesa e vissuta, secondo quanto ci rivela Gyges all’inizio dell’opera (“chi possiede la felicità deve nascondersi per bene”) in un incipit musicalmente bruciante, che ci immette subito in medias res. Piuttosto lunga la serie di autori che nel corso dei secoli si sono occupati della vicenda, partendo da Erodoto e Platone, attraverso Friedrich Hebbel e Théophile Gautier, sino a Le Roi Candaule, dramma di André Gide dal quale Zemlinsky prese spunto per il suo libretto. Al tema della felicità si sovrappone quello della visione, di ciò che deve rimanere celato, della punizione che nasce dall’eccesso di conoscenza/visione, tema assai caro alla cultura greca (si pensi ad esempio al mito di Atteone) intersecandosi spesso con quello della disobbedienza d’amore.
Riguardo dunque a tali tematiche, si è avvertita la netta separazione fra due mondi radicalmente diversi, rappresentati da Kandaules sul versante della esibizione/visione, da Gyges e Nyssia sul lato opposto. La separazione drammaturgica ha trovato inoltre un curioso e perfetto rispecchiamento sul piano vocale. Un po’ al di sotto delle aspettative Peter Svensson nel ruolo di Kandaules, all’inizio titubante e poco fluido, solo successivamente ha saputo ammorbidire il proprio timbro, acquistando in precisione e duttilità. Di certo il tenore austriaco non è stato favorito dalla natura impervia della scrittura vocale, incentrata su tessiture molto alte e caratterizzata da linee canore sempre tormentate e ritorte su sé stesse. In molte occasioni – come nel monologo del primo atto (“Verzheit, Nyssia! Ach Schmerz…”), vero e proprio manifesto del protagonista – Svensson ha cantato con energica convinzione, rivelando un buon controllo delle qualità vocali, ma difettando di interpretazione e mancando dell’imperiosità tipica del sovrano, pure nella scoperta fragilità.
Di livello superiore le prove di Kay Stiefermann nel ruolo di Gyges e di Nicola Beller Carbone in quello di Nyssia. Il baritono tedesco ha subito manifestato un volume adeguato e un fraseggio possente, ben più regale di quello del contorto Kandaules, mostrandosi sicuro anche nelle scene di maggiore violenza (soprattutto durante la brutale uccisione della moglie Trydo). Estremamente disinvolta la Beller Carbone, con una presenza scenica di grande carisma che le ha permesso di esibire il nudo integrale del secondo atto, principale motivo della mancata rappresentazione dell’opera al Metropolitan nel 1938. Di estenuata sensualità il duetto del secondo atto, dove il soprano ha opposto al canto parossistico di Kandaules una linea vocale morbida e invitante, rinforzata dagli interventi dell’orchestra. Da fredda creatura del primo atto, nel corso dell’opera Nyssia si trasforma in donna di debordante prepotenza e sensualità vocale, giocata sulle zone più acute del registro, che la cantante riusciva a raggiungere senza alcuna difficoltà.
Interamente maschile il resto della compagnia, omogenea nei diversi ruoli e vocalmente compatta: robusti il Phedros di Nicolò Ceriani e il Pharnaces di Jeremy Milner (entrambi già ascoltati in The Greek Passion); buoni i contributi di Cristiano Olivieri nel ruolo di Syphax e di Giulio Pelligra in quello di Sebas. Ad essi si aggiungevano il Nicomedes di Paolo Orecchia, il Simias di Alex Wawiloff, l’Archelaos di Alexey Birkus, fino al versatile Ventseslav Anastasov nel ruolo del cuoco e al corposo Mathias Tosi, di spessore vocale e di mobilità scenica non indifferente. Accoglienza calda da parte del pubblico, nonostante la rarità d’ascolto dell’opera, e lunghi applausi riservati soprattutto al soprano e al baritono. Repliche sino al 22 maggio.
Foto Corrado Lannino