Reggio Emilia, Teatro Valli:”Rinaldo”

Reggio Emilia, I Teatri, Stagione lirica 2011-2012
“RINALDO”
Dramma per musica in tre atti. Libretto di Aaron Hill, traduzione di Giacomo Rossi
Musica di Georg Friedrich Handel
Goffredo KRYSTIAN ADAM
Almirena MARIA GRAZIA SCHIAVO
Rinaldo DELPHINE GALOU
Argante RICCARDO NOVARO
Armida ROBERTA INVERNIZZI
Mago cristiano ANTONIO VINCENZO SERRA
Araldo WILLIAM CORRO’
Donna/Sirena LAVINIA BINI
Accademia Bizantina
Direttore Ottavio Dantone
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Coreografo Roberto Maria Pizzuto
Luci Vincenzo Raponi
Allestimento de
I Teatri di Reggio Emilia, coproduzione con Teatro Alighieri di Ravenna e Teatro Comunale di Ferrara
Reggio Emilia, 27 aprile 2012 


Uscendo dal Teatro Valli di Reggio si sentivano spettatori commentare che questo allestimento di Pier Luigi Pizzi,
nato proprio lì nel lontano 1985 e da allora riproposto innumerevoli volte in Italia e nel mondo, sarebbe invecchiato. Ma questo è ingiusto. Il Rinaldo di Pizzi, fin dalla sua nascita, è sempre stato l’esempio più gloriosamente lampante di ciò che il teatro d’opera non dovrebbe mai essere. Gelido, superficiale, noioso, “mortale” (per usare il termine di Peter Brook) nacque e gelido, superficiale, noioso, “mortale” rimane. Per chi non lo avesse presente, questo spettacolo si può riassumere velocemente: in uno spazio magniloquente che richiama le scene tardobarocche dei Bibiena, stuoli di figuranti fanno l’Orlando furioso di Ronconi, portando a spasso dei carrelli sui quali sono sistemati, possibilmente in groppa a cavalli dorati, su barche dorate, ecc… dei cantanti immobili, vestiti da parodia dell’opera barocca, i quali cantano delle arie di Handel, per l’unica motivazione che sono stati pagati per farlo. Durante i ritornelli orchestrali i carrelli fanno un giretto del palco, poi ritornano al loro posto. Altri stuoli di figuranti hanno il compito di far muovere incessantemente dall’inizio alla fine i loro giganteschi mantelli. (Totale figuranti: 26, alla faccia della miseria.) Che cosa questo abbia a che fare con il teatro d’opera del Settecento, il cui fine era quello di muovere gli affetti, non è dato sapere.
Un tale approccio di algida e umoristica indifferenza al dramma e alla psicologia funzionava benissimo nella neoclassica e anti-romantica riscrittura di Sofocle dell’Oedipus Rex di Stravinsky-Cocteau del 1927 (dove è anzi prescritto) e ancora funzionava nell’operazione di riscrittura di Ariosto dell’Orlando furioso di Ronconi-Sanguineti del 1969, dove Pizzi era scenografo e costumista. Ma le opere barocche o rossiniane che Pizzi ha messo in scena in seguito copiando quell’allestimento non erano riscritture creative. Erano proprio le opere di Handel, Vivaldi o Rossini, i quali di doversi sottrarre al peso del secolo di Schopenauer, Wagner e Tolstoj nulla sapevano e che, anzi, mantenevano relativamente neutra la loro scrittura italiana proprio per dare modo all’attore di caricarla delle proprie passioni. Tale operazione di distanza neoclassica dal materiale da un lato fa un torto all’estetica “affettuosa” dei loro autori e dall’altro non si fa portatrice di un nuovo senso (come potrebbe essere uno straniamento critico) ma veicola unicamente una “forbita eleganza” (spesse volte più presunta che reale perché il kitsch spesso trionfa) che si traduce in noia e, nei momenti migliori, ridicolo (come, in questo spettacolo, nella scena della Battaglia, in cui alla falsa indifferenza olimpica delle statue equestri che brindano flebilmente con le spade di legno si contrappone, al “piano di sotto”, la vera e palpabile fatica degli oscuri figuranti indaffarati a spingere i loro carrelli, portantini di qualche processione sacra calabrese catapultati tra gli stucchi dorati della Scala).
Forse la “forbita eleganza” aveva un suo perché negli anni ’80, anni di una prosperità economica ormai lontana, anni in cui esisteva ancora un pubblico che andava a teatro per esibire il visone e con il preciso intento di essere annoiato. Oggi di visoni non ne circolano più tanti e i ricchi esibiscono il loro status sociale in altri luoghi. Quelli che vanno a teatro ci vanno per divertirsi, per emozionarsi, per riflettere… Economicamente è (molto) peggio, artisticamente è un bene. Ma in quest’ottica la “forbita eleganza” non ha più senso di esistere. Complice forse il “ponte” 25 aprile/1 maggio, i reggiani, che conoscono questo spettacolo anche per una ripresa nel 1991, hanno disertato questa prima rappresentazione, lasciando il teatro semivuoto. Colpa dell’ignoranza verso il repertorio barocco, certo. Anche se, in effetti, oggi “Lascia ch’io pianga” è assai più nota di “Tacea la notte placida”. Ma perché mai uno spettatore, che non ha mai ricevuto a scuola un’istruzione musicale e non ama svisceratamente Handel, dovrebbe sorbirsi due ore e mezza di “forbita eleganza”? La storia degli ultimi 30 anni ha dimostrato che registi con visioni più fresche e direttori artistici con visioni più lungimiranti sono in grado di portare il pubblico a teatro anche con “il barocco”.
Ad ogni modo, Handel concepì Rinaldo nel 1711 per conquistare un pubblico inglese che non capiva l’italiano ed era ancora un po’ diffidente verso l’opera italiana. Si fece scrivere un libretto abbastanza idiota da due scribacchini qualsiasi con l’unico scopo di avere pochi recitativi e tante belle arie, nelle quali riciclò alcune dei greatest hits del soggiorno italiano (ma “Lascia ch’io pianga” era nata come danza strumentale nell’Almira scritta ad Amburgo nel “lontano” 1705). Quindi, in questo caso, un concerto in costume privo di valori teatrali non è poi così insopportabile  in altri casi. Ci sarà anche chi osserva che “almeno non si tratta di una di quelle regie moderne in cui i cantanti cantano a testa in giù”. Ma purtroppo questi carrelli se da un lato sono miracolosamente silenziosi e consentono ai cantanti di tenere una postura immobile sempre adeguata alle esigenze del canto, dall’altro negano loro di poter avanzare verso il proscenio e li obbligano a cantare sempre piuttosto indietro nel palcoscenico, dove una scenografia molto “aperta” non aiuta certo a mandare il suono verso la platea. Più sfortunata di tutti la povera Lavinia Bini (Sirena), che deve stare antipatica a qualcuno perché è stata relegata a cantare la sua aria dietro le quinte (mentre in scena due figuranti agitavano le loro code da sirena) mentre avrebbe potuto essere tranquillamente sistemata nella buca dell’orchestra, dove avrebbe potuto fare ascoltare la sua voce che si è intuita graziosa.
Con questi handicap di partenza, da un punto di vista musicale questo è stato un Rinaldo di tutto rispetto. Come nella maggior parte delle esecuzioni, si è trattato di un collage tra la versione originale del 1711 (con Nicolini protagonista) e la versione che Handel rielaborò nel 1731 (con Senesino protagonista, che fece trasporre quasi tutta la sua parte un tono sotto), con diversi tagli e alcuni spostamenti. In sostanza si sono fatte scelte analoghe a quelle dell’allestimento della Fenice del 1989 (sempre una ripresa dello spettacolo di Pizzi) che vedeva la Horne protagonista, che seguiva la partitura del 1711 ma che prendeva da quella del 1731 un Goffredo tenore anziché contralto e un Mago Cristiano basso anziché contralto. Chi avesse la curiosità di sapere che cosa sia stato effettivamente eseguito può controllare quindi un elenco dei tracks del cd pubblicato dalla Nuova Era, ma con queste differenze:
1) non è stata eseguita l’aria all’unisono “Il Tricerbero umiliato” (Rinaldo), sostituita dall’assai più interessante “Abbrugio, avvampo e fremo” (che riprende “Spezza l’arco e getta l’armi” della cantata Apollo e Dafne);
2) “Cara sposa” (Rinaldo) è stato spostata all’atto II (e quindi sempre cantata ad Armida che ha preso le sembianze di Almirena) ma non dopo il duetto “Fermati!” (Rinaldo e Armida), bensì dopo l’aria “Ah! crudel! Il pianto mio”;
3) l’aria “Ah! crudel! il pianto mio”, aria di Armida (rivolta a Rinaldo), che nel 1731 passò ad Almirena (rivolta ad Argante) privata della sua parte B, e che in questa circostanza è stata cantata per motivi oscuri in questo modo: Almirena la parte A (rivolta non si è capito a chi), Armida la parte B e di nuovo Almirena il Da capo;
4) per motivi altrettanto oscuri, l’aria “Solo dal brando”, composta per contralto nel 1711 ed assente nella versione tenorile del 1731, è stata trasposta per tenore una quarta più in basso.  La voce gradevole ma esangue e poco appoggiata di Krystian Adam (Goffredo) si è trovata più agio in quest’ultima “nuova” aria, piuttosto che in quelle previste da Handel, che richiederebbero un tenore con dei centri molto più consistenti. In luogo di Marina De Liso, che ha cantato nelle prime recite di questa ripresa a Ravenna pur essendo gravemente indisposta, a Reggio Emilia si è ascoltato il “contralto” Delphine Galou, mezzosoprano leggero (tipo Von Stade) dal notevole stile, eccezionale nelle agilità e che canta in maniera ortodossa, ma che sfortunatamente non è stata fornita dalla natura di una voce di petto particolarmente sonora e che dunque può cantare benissimo in una tessitura contraltile nei dischi, ma non in teatro, e di certo non in un teatro grande come il Valli. Il resto del cast ha riservato solo piacere: dal Mago Cristiano del basso-baritono Antonio Vincenzo Serra che ha reso al meglio la sua breve arietta, all’eccellente Argante del baritono Riccardo Novaro, alle note seduzioni della voce barocca di Roberta Invernizzi, la cui Armida è stata purtroppo molto danneggiata dall’assenza di teatralità dell’allestimento. Su tutti ha trionfato la squisita Almirena di Maria Grazia Schiavo, che dovrebbe farsi scrivere delle altre variazioni per “Lascia ch’io pianga” anziché quelle irrilevanti e vagamente “pop” che ha cantato (unica eccezione in una lettura stilistica dell’opera altrimenti ammirevole), ma che a parte ciò ha conquistato il pubblico con perfette messe di voci, trilli e tutti i più soavi artifizi canori, specialmente nella disneyana “Augelletti, che cantate” con flautino concertante (non intonatissimo…). Ottavio Dantone ha guidato con il fuoco e lo stile di sempre l’Accademia Bizantina, dirigendo dal clavicembalo, che ha fatto brillare nei soli scritti per lo strumento da Handel nell’aria di Armida “Vo’ far guerra”. P.V.Montanari