Napoli, Teatro San Carlo: “La Bohème”

Napoli, Teatro San Carlo, Stagione Lirica 2011/ 2012
“LA BOHEME”

Scene liriche in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scènes de la vie de bohème di Henri Murger
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo
ROBERTO ARONICA
Marcello  LUCA SALSI
Schaunard  GIULIO MASTROTOTARO
Colline ALESSANDRO SPINA
Benoit MATTEO PEIRONE
Alcindoro  FRANCESCO MUSINU
Mimì  SERENA DAOLIO
Musetta  ROSA FEOLA
Parpignol  STEFANO PISANI
Orchestra e Coro del Teatro San Carlo di Napoli
Voci bianche del Teatro San Carlo di Napoli
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del Coro Salvatore Caputo
Maestro del Coro a voci bianche Stefania Rinaldi
Regia e luci  Lorenzo Amato
Scene e Costumi  Alfredo Troisi
Nuovo allestimento del Teatro San Carlo
Napoli, 25 maggio 2012

Sarà retorico sottolinearlo, ma la bellezza senza tempo del Teatro di San Carlo si esalta, ogni volta, per la presenza dei tanti giovani che affollano le sue platee ( o meglio le sue gallerie, considerati i costi). Anche questa volta, complici titolo e contenuti, la Bohème pucciniana, rappresentata al San Carlo per la sessantesima volta, può vantare un forte richiamo popolare e una lieta presenza giovanile. I giovani amano ancora la Bohème. I giovani di oggi non possono non amare la Bohème. Un’opera di giovani, per i giovani, affidata, in quest’allestimento tutto sancarliano, alla direzione orchestrale  di un giovanissimo dal curriculum già vertiginoso, Andrea Battistoni  e alla regia e alle luci di Lorenzo Amato anche egli molto giovane. Le aspettative di una lettura fresca, vigorosa,  però, sono state, a dire il vero,  mortificate, come se, in quest’allestimento di giovani per i giovani, mancasse proprio quella vis prorompente che arriva e travolge. Il contrasto emozionale, l’opposizione concettuale che sfocia nella dicotomia estrema “vita-morte” che Puccini e i suoi librettisti pongono, con tutte le intenzioni magistrali del caso, sin dall’inizio dell’opera, non trova in questa Bohème la giusta valorizzazione. La carica emotiva, che  sarebbe dovuta risuonare fortissima e scaturire dal contrasto “termico” fra il calore di un amore che sboccia e il gelo della soffitta, non riesce a provocare nessuna scossa, anzi, l’atteso contrasto pare spegnersi, affievolendosi, come la fiamma della candela di Mimì, anziché divampare . Restano, a questo punto, da cogliere le motivazioni performative ed esecutive della ravvisata carenza emozionale nel bilancio della rappresentazione. Una performance è, senza dubbio, la risultante simbiotica di forze parallele combacianti e convergenti. Pertanto, qual è stato il punto della tela lasciato senza ricamo? L’opera in questione, come sempre, trascina da sé,  significati mirabili e bellezza incontaminata; è, dopo tutto, “un’opera che il pubblico conosce dal centosedici anni costruita come una corazzata: sta a galla anche quando guidata da pessimi equipaggi” citando Harvey Sachs.
Non che questo nuovo allestimento del San Carlo con tre cast alternanti nelle tredici  repliche previste,  sia guidato da un pessimo equipaggio, anzi.  I due giovani alla guida di questo “vascello” sono, senza dubbio dotati di  talento oltre che di spirito critico che appare in molte delle scelte compiute per l’allestimento, soprattutto quelle nate da un ossequio filologico della partitura e del libretto.  Apprezzabili, inoltre,  sono parse le scene di Alfredo Troisi, fusione interessante fra tradizione ed innovazione con la scelta di essenziali ed efficaci proiezioni animate sullo sfondo, di cui la memoria fotografica del pubblico conserverà, di certo, la luna chiara, piena imponente della notte di luna celebrata nell’ aria di Rodolfo e i fiocchi di neve che scendono lievi sullo sfondo della Barriera d’Enfer enfatizzati dalle quinte vuote parallele dei flauti e dell’arpa che contribuiscono a creare un senso di fredda desolazione. Ulteriore elemento interessante della scenografia  (sebbene non funzionalmente sfruttato dalla regia) è costituito dalla presenza delle scale a vista che introducono nella soffitta, luogo privilegiato di incontri dove, oltre la fiamma, si consumano amori e poesia,  e l’arte si genera dalla sua stessa distruzione. Anche i costumi, firmati dallo stesso Troisi, appaiono di ottima fattura e intuizione, apprezzabili, in larga misura, soprattutto nel secondo quadro.  Il quartiere latino, apoteosi di colori e movimento, si popola in maniera vivace e armoniosa, con merito del regista, che ha  gestito le masse con efficace cura delle dinamiche spaziali.
Con rigore filologico, il giovane regista fa succedere il quadro in questione in maniera diretta dal primo con conseguente cambio di scenografia a vista. Peccato, però, che la scenografia abbia fatto i capricci costringendo il direttore di scena ad interrompere la recita per allontanare la massa corale che in quel momento occupava la totalità del palcoscenico. Situazione pericolosa, oltre che imbarazzante.
Fortunatamente, dopo qualche minuto di vera suspance, al richiamo del direttore, la scena si ripopola con gran merito dei bambini del coro di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi che, oltre alla vivace presenza scenica e alla buona intonazione, hanno dimostrato professionalità pari ai colleghi più adulti. Il tenore Roberto Aronica esordisce con impeto e brillantezza vocale con fasi, però, eccessivamente spinte. La condotta vocale, nell’esecuzione della celebre aria « Che gelida manina» è intaccata dalla resa dell’ostico  Do che pregiudica anche le ultime battute dell’aria, di conseguenza quasi, sussurrate. Ma, già dal duetto la situazione sembra ripristinata e grazie alla possanza del suo strumento vocale, “salverà” molti dei duetti successivi con Serena Daolio che interpreta Mimì (repliche del 19, 23, 25) la quale, in quest’occasione, non brilla né come cantante né come interprete. La voce non ha quel colore avvolgente, morbido, compatto, fluido che sospende i pensieri e avvolge l’udito dello spettatore, i piani sono quasi inesistenti. La sua condotta vocale risente, forse,  di un’ indisposizione fisica. Da un punto di vista performativo la sua è una Mimì che non convince. Eccessivamente stanca  e già troppo malata nel primo quadro, non regala al pubblico quei colori di grazia, malizia, brio, vitalità che creano le meravigliose sfumature della sua celebre aria di  presentazione: non ci sono nuancés intermedie fra la speranza giovanile e la rassegnazione ad una morte intuita e da sempre avvertita. Il suo personaggio non si lascia, veramente, illuminare dal tiepido sole, non si riempie davvero di quell’amore che potrebbe guarirla. Molto buona, invece, la prestazione di Rosa Feola che interpreta con entusiasmo una Musetta impertinente, ma equilibrata, con  luminosa presenza scenica. Esegue la sua aria di presentazione: «Quando m’en vo» in maniera limpida e distinta. A lei, spettano, a ragione, gli applausi più calorosi. Il Marcello di Luca Salsi, il Colline di Alessandro Spina, lo Schaunard di Giulio Mastrototaro, non dispiacciono e non entusiasmano. Dotati di buone capacità attoriali e di buone competenze canore, i tre conferiscono brio e la giusta dose di comicità alla scena con Benoît, interpretato e molto ben caratterizzato, anche grazie al costume, da Matteo Peirone. Efficace la loro intesa scenica e  interessanti i movimenti registici a loro affidati, soprattutto, nel primo e secondo quadro. E’ stata, in definitiva, sotto ogni parametro valutativo (conduzione orchestrale, regia, condotta vocale) una Bohème orfana di quei chiaroscuri semantici, di quelle passioni svelate e tacite, di quella poesia che è la presenza imprescindibile del lavoro pucciniano. La poesia intensa, il sentimento sincero traspare solo nel finale, ma anche qui, c’è il netto sentore  che il merito vada al “carrozzone” di cui parlava Sachs. La pagina musicale del momento catartico in cui Rodolfo si avvede della morte di Mimì è di una bellezza disarmante, coinvolgente oltre ogni tempo, ogni interprete, ogni rappresentazione. Le note lunghe ripetute in cui Rodolfo invoca “Mi-Mì” provocano in ogni anima sensibile uno strazio palpabile che diviene consapevolezza dell’impotenza umana, che segna, inevitabilmente, la fine delle illusioni giovanili, della vacuità della poesia, l’avvenuta e unica possibilità che “ l’estro rivoli ai suoi cieli”. Foto Francesco Squeglia © Teatro San Carlo di Napoli