Martina Franca, Palazzo Ducale, XXXVIII Festival della Valle d’Itria
“ARTASERSE”
Dramma per musica in tre atti, libretto di Pietro Metastasio. Prima versione per il Teatro di San Giovanni Grisostomo di Venezia (1730)
Edizione a cura di Marco Beghelli con la consulenza di Raffaele Mellace.
Musica di Johann Adolf Hasse
Artaserse ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Mandane MARIA GRAZIA SCHIAVO
Artabano SONIA PRINA
Arbace FRANCO FAGIOLI
Semira ROSA BOVE
Megabise ANTONIO GIOVANNINI
Ensemble Barocco dell’Orchestra Internazionale d’Italia
Direttore Corrado Rovaris
Regia Gabriele Lavia
Scene Alessandro Camera
Costumi Andrea Viotti
Martina Franca, 14 luglio 2012
Da anni il Festival della Valle d’Itria punta alla riscoperta dell’opera seria settecentesca cercando di renderne godibile l’astrattezza drammaturgica e l’alto tasso di stilizzazione retorica. Se fino ad oggi il criterio di selezione dei titoli da riesumare (mi si passi il termine necrofilo) s’era basato sulla nascita pugliese degli operisti (Leo, Traetta, Paisiello, Piccinni, Sarro), da due edizioni si è puntato a individuare opere significative per l’eccellenza compositiva (Rodelinda di Handel nel 2010) o per la fortuna coeva, come nel caso del best seller Artaserse musicato da Hasse a Venezia nel 1730 e poi replicato decine di volte in diversi teatri. Quando un melodramma storicamente così importante viene restituito all’ascolto, sulle prime si resta sempre stupiti: a cosa fu dovuto il successo di un’opera che, come tutte, ossequiava un chiaroscuro espressivo organizzato per schemi compositivi collaudati e condivisi? Ad ascoltare alcune arie dell’Hasse di Artaserse s’intuiva la direzione che di lì a due anni avrebbe seguito il genio di Pergolesi; in altre il particolare trattamento degli archi faceva pensare a Vivaldi (del resto la piazza ospite era Venezia); altre ancora erano indistinguibili sul piano stilistico dai guizzi della scrittura di Porpora o di Leo. A stabilire o meno la fortuna d’un’opera, all’epoca, interveniva per gran parte la rinomanza del cast: nell’Artaserse del 1730 cantarono la Cuzzoni (Mandane), Nicolino (Artabano) e Farinelli (Arbace). Ricreare la fascinazione di quelle voci rappresenta ogni volta una sfida che senza dubbio costituisce il bello di simili operazioni culturali coinvolgenti la ricerca musicologica.
L’Arbace di Franco Fagioli, star di spicco tra i falsettisti odierni, ha palesato una precisione ineccepibile nei passaggi di coloratura insieme a un’omogeneità e una rapidità nel passaggio di registro invidiabile; per contro la sua mimica facciale deformata dallo sforzo canoro andava contro alla piacevolezza (eroticamente connotata) di quella vocalità artificiosa e i recitativi risultavano incomprensibili e infastidenti. Le critiche di chi ebbe la fortuna di ascoltare Farinelli testimoniano un certo impaccio attoriale dell’evirato cantore, filologicamente riproposto da Fagioli, gratificato tuttavia da applausi e grida di gioia alla fine di ogni sua aria (è mancato poco che qualcuno del pubblico martinese gridasse “One God, One Fagioli”). Ottima, invece, la recitazione di Sonia Prina, un Artabano-Macbeth di grande intensità emotiva, capace di passare dal virtuosismo pirotecnico (incrementato dall’aria vivaldiana S’impugni la spada, inserita su sua richiesta a mo’ di “aria di baule” delle dive settecentesche) al più intenso patetismo, specie nel monologo orrifico che chiude il secondo atto, una pagina di teatro puro, in anticipo di decenni rispetto al gusto melodrammatico di quel tempo. Perfetta sul piano vocale e attoriale Maria grazia Schiavo, la cui naturalezza gestuale e morbidezza d’emissione sapeva, unica nel cast, restituire una sensualità canora di grande fascino. Fin troppo scanditi (a tratti quasi parlati) i recitativi del tenore Anicio Zorzi Giustiniani che tuttavia si è mostrato più che generoso sul piano attoriale e dignitoso su quello vocale (le arie del protagonista eponimo sono uniformemente assestate su un tono ‘medio’ che non ha esaltato un pubblico quanto mai desideroso dei più vertiginosi funambolismi dell’ugola). Solo discreta la prova della coppia comprimaria: la Semira di Rosa Bove (voce poco sonora) e il Megabise di Antonio Giovannini (voce un poco ‘stretta’). Prudenziale la scelta del direttore Corrado Rovaris che dal suo cembalo ha imposto all’ensemble barocco dell’Orchestra Internazionale d’Italia (in realtà composto da strumenti moderni, tranne il liuto di Richard Savino) toni color pastello sempre limitrofi al mezzopiano, forse timoroso di coprire le voci (complice il gradevole venticello che ristorava il pubblico del cortile di palazzo ducale). Ciò non toglie che la sua ricerca di nuances in quel contesto di sound volutamente contenuto sia stata squisita: la raffinatezza delle sue scelte direttoriali era infatti capace di esaltare dettagli minimi, rendendo la partitura di Hasse quasi più ricca di quanto sia in realtà. Non è affatto vero che il dramma serio sottovalutasse l’aspetto attoriale, né che si muovesse in spazi scenici generici e stereotipati; né è credibile continuare a sostenere che vi fosse staticità in una drammaturgia che s’avvicinava per sua natura allo spettacolo tragico parlato.
Il regista Gabriele Lavia, pur consapevole di tali assunti non ha saputo inverarli, limitandosi ad adottare topoi prossemici inefficaci nella misura in cui non hanno colto l’esigenza di ‘decoro’ intrinseca a questo tipo di spettacolo. La fedeltà alle prescrizioni didascaliche non è bastata a far digerire il continuo trascinarsi a terra dei cantanti, ignari che all’epoca di Hasse i loro colleghi con un gesto della mano sapevano codificare emozioni. Lavia non ha quindi per nulla approfondito il sottile legame che nella musica di Hasse (come in quella di Pergolesi) legava la musica al gesto; improvvisato regista di opera barocca non è stato abbastanza “folle” (nella sua intervista ha ammesso che “chi si dedica all’opera barocca non può essere sano di mente”). Sempre da Lavia è sortita l’indicazione dei costumi militari (di Andrea Viotti) allusivi al golpe che interessa la vicenda rappresentata (“un golpe come lo vuoi rappresentare se non con delle divise militari di oggi?” dice Lavia); peccato però che qualcuno ha rischiato di scambiare per comparse i sei militari in alta uniforme schierati nell’andito del palazzo ducale ad onorare la presenza delle autorità. Convincente, invece, la scena di Alessandro Camera, una mole sospesa tra le sculture di Max Ernst e le geometrie della tomba monumentale dell’Artaserse storico; cupa e rugginosa, incombente, o addirittura inghiottente, si è mostrata una cornice scenica funzionale al movimento scenico e allusiva al senso ultimo del dramma (la “sete di regno”), confezionata con l’abilità artigianale e la raffinatezza creativa che contrassegna il laboratorio della Fondazione Petruzzelli di Bari. Repliche il 18 e il 27 luglio. Foto Laera