Palermo, Teatro Massimo, stagione lirica 2012
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dalla tragedia giapponese Madame Butterfly di David Belasco e dal racconto omonimo di John Luther Long
Editore Universal Music Publishing Ricordi srl, Milano
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly DANIELA DESSÌ
Suzuki GIOVANNA LANZA
Kate Pinkerton LORIANA CASTELLANO
B.F. Pinkerton ROBERTO ARONICA
Sharpless ALBERTO MASTROMARINO
Goro MASSIMILIANO CHIAROLLA
Il principe Yamadori FEDERICO LONGHI
Lo zio Bonzo RAMAZ CHIKVILADZE
Il commissario imperiale CLAUDIO LEVANTINO
L’ufficiale del registro GIOVANNI LO RE
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Marcello Mottadelli
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Andrea Cigni
Scene e costumi Beni Montresor
Luci Claudio Schmid
Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Palermo, 18 settembre 2012
Scorrendo critiche e opinioni cinematografiche, spesso capita di leggere che chi non riesce a commuoversi per il film di Frank Capra La vita è meravigliosa (1946) è da considerarsi persona insensibile e senza cuore. Se dovessimo trovare un equivalente in campo operistico – accanto a Bohème e Traviata – a mio parere la scelta ricadrebbe su Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Ma se in un film tutto rimane sempre identico, consentendo allo spettatore di ritrovarvi le stesse emozioni (salvo, ovviamente, altre variabili del tutto imprevedibili) nel teatro d’opera ciò non accade in maniera automatica. E quando speriamo di essere ormai in una botte di ferro, assolutamente certi che il coinvolgimento emotivo venga assicurato, ecco allora che in un batter d’occhio le nostre certezze cominciano a vacillare.
A causare questo breve scotimento di convinzioni è stata la rappresentazione del capolavoro pucciniano andata in scena il 18 settembre, presso il Teatro Massimo di Palermo. Nonostante fossero trascorsi pochi anni dall’ultima edizione (settembre 2009), eravamo sostenuti dalla fiducia di assistere a uno spettacolo di notevole impatto visivo, considerando le allettanti premesse riguardo a regia, scenografia e costumi. E invece l’allestimento proposto ha profondamente deluso, a causa di un apporto registico quasi inesistente, quello del toscano Andrea Cigni. Il suo modo di strutturare lo spettacolo si è limitato a poche idee, sulla scia di un’impostazione tradizionale di cui ha deciso di riproporre i cliché più abituali, distanziandosene in pochissime occasioni e quasi mai in maniera opportuna (le amiche di Butterfly che entrano in anticipo, spezzando l’incanto del momento; la protagonista che poco prima del matrimonio salta al collo di Pinkerton, contraddicendo la propria condizione di geisha; lo spostamento dei pannelli poco prima dell’epilogo, ad opera di servitori che a rigor di logica non dovrebbero esserci).
La concezione originaria, in realtà, risale al compianto Beni Montresor e allo spettacolo andato in scena nella stagione 1995-1996 al Teatro Carlo Felice di Genova, di cui Palermo ha mantenuto scene e costumi. Anche qui dobbiamo formulare delle riserve, tenendo ferma la convinzione di non aver assistito a nulla di particolarmente sconcertante, ma nemmeno di lontanamente coinvolgente. L’impianto scenico, pur sostenuto dalle belle luci del sempre ottimo Claudio Schmid, ha infatti rivelato un profilo eccessivamente asciutto, troppo astratto, a tratti infarcito di soluzioni decorative abbastanza suggestive, ma niente di più (come ad esempio i bianchi veli calati dall’alto, sui quali venivano proiettate alcune immagini, in corrispondenza di momenti particolari dell’azione). Non è riempiendo il palcoscenico di ninnoli e japonaiserie che si può conferire peso scenico a Madama Butterfly (e su questo siamo pienamente d’accordo), ma al tempo stesso nutriamo la convinzione che una analisi più attenta del libretto e della partitura sarebbe stata d’aiuto per individuare le soluzioni migliori alla corretta restituzione dell’opera Nel caso specifico, alla visione stilizzata di Montresor doveva far seguito quella concezione tesa e drammatica da lui stessa auspicata e che invece non abbiamo riscontrato, sostituita da movimenti stereotipati e da un risultato desolatamente banale, nonostante le intenzioni di segno opposto.
La colpa, ovviamente, non va addossata interamente a Cigni. Quello che mancava alla regia e che si sperava venisse recuperato a livello vocale e nella recitazione ha subìto un’ulteriore battuta d’arresto nelle discutibili prove di alcuni cantanti. Fra questi, purtroppo, vi era anche la protagonista, Daniela Dessì, che – pur essendo una veterana del ruolo pucciniano – ha offerto un ritratto di Cio-cio-san poco credibile e abbastanza avulso dal contesto. I suoi gesti risultano eccessivamente ampi e affettati, la recitazione esagerata e in aperto contrasto con la contraddittoria interiorità della protagonista. La voce denuncia l’implacabile scorrere del tempo, spesso coperta dall’orchestra e velata in ogni registro, soprattutto nell’emissione degli acuti che erano tutti mandati all’indietro. In “Un bel dì vedremo” il soprano è riuscito a recuperare in intensità di interpretazione, ma con problemi di tenuta di fiato e con una sofferenza vocale troppo scoperta. Dalla parte di coloro che non sono riusciti a rendere il personaggio stava anche lo Sharpless di Alberto Mastromarino. Il baritono – che nel passato aveva convinto per la costruzione di altri caratteri – in questo caso ha sostenuto il ruolo con superficialità, senza conferire alcun calore all’articolato canto del console, privo di legato e dal fraseggio tristemente monotono. Mastromarino, dunque, non ha saputo addolcire il tipico colore da “cattivo verista”, risultando quasi sempre sotto tono e poco coinvolgente.
I giudizi lusinghieri vanno invece indirizzati al protagonista maschile, il tenore Roberto Aronica. Il suo volume è incisivo, la recitazione ben condotta e decisamente a suo agio sullo spazio scenico. Il Pinkerton di Aronica era improntato a sbrigatività e rozzezza, così come dovrebbe sempre essere. La voce rifletteva l’attento lavoro sul personaggio, sfruttando l’avvolgente timbrica a favore di un’emissione limpida e splendente, talvolta spinta verso il grido, ma adeguata alla tipica spavalderia che contraddistingue il luogotenente americano. Nell’unica romanza che Puccini gli riserva – “Addio fiorito asil” – l’interpretazione del tenore si è fatta più dolente, senza però perdere di vista quella componente di grossolanità che rientrava nella lettura di mancata evoluzione del personaggio. Radicalmente opposta doveva essere la costruzione del personaggio di Cio-cio-san, in progressivo mutamento attraverso i due atti, e che invece abbiamo ritrovato sempre uguale a sé stessa, nei diversi momenti dell’opera. Accanto ad Aronica si sono distinti sia la Suzuki di Giovanna Lanza (applauditissima alla fine dello spettacolo e ben sostenuta dall’orchestra) sia il Goro di Massimiliano Chiarolla (dall’acidità perfetta per la resa vocale dell’intrigante sensale). Privi di nota gli altri interpreti, con livelli modesti sia nel caso del principe Yamadori (Federico Longhi), sia in quello dello zio Bonzo (Ramaz Chikviladze).
A risollevare in parte le sorti musicali dello spettacolo è intervenuta l’impetuosa direzione di Marcello Mottadelli, nuovamente alle prese con il mondo orientale dopo l’impegnativa prova nel luglio 2011 di Turandot. Il risultato è trascinante, nonostante i tempi troppo frettolosi e alcuni momenti di fraintendimento ritmico con i cantanti. Buona l’intesa con il Coro del Teatro Massimo, che però anche stavolta ha avuto a che fare con alcuni problemi di intensità e volume. Relativamente a questo aspetto, la compagine corale rifletteva l’impasse della protagonista, quasi sempre poco udibile dal numeroso pubblico presente in sala. Si acuiva così la sensazione di scollamento dallo spettatore, impedendo quel processo di identificazione che è necessario alla strutturazione del dramma. Ma chiudendo gli occhi e prestando orecchio alla tessitura orchestrale, ecco che ritorna la commozione, sempre vigile, sempre all’erta. Per fortuna la musica di Puccini rimane, a dispetto di tutto e di tutti. Repliche sino al 25 settembre . Foto Franco Lannino © Studio Camera