Torino, Teatro Regio: “Der fliegende Holländer”

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2o12/2013
“DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
L’Olandese MARK S. DOSS
Senta ADRIANNE PIECZONKA
Erik STEPHEN GOULD
Daland STEVEN HUMES
Mary CLAUDIA NICOLE BANDERA
Il timoniere di Daland VINCENTE OMBUENA
Orchestra e Coro del Teatro Regio. Coro “Maghini”
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Stefan Heinrichs dall’originale di Willy Decker
Scene e costumi Wolfgang Gussmann
Luci Hans Tölstede
riprese da Wolfgang Schünemann
Allestimento Opéra National de Paris
Torino, 16 ottobre 2012

Per una volta, non mi lamenterò della soppressione degli intervalli. Wagner, infatti, concepì inizialmente Der fliegende Holländer come atto unico, ed in seguito ne approntò una versione in tre atti: l’esecuzione senza intervalli è dunque a pieno titolo una possibilità esecutiva approvata dall’autore, ed anzi permette forse di apprezzare meglio l’atto di nascita del teatro musicale wagneriano, che universalmente viene individuato in quest’opera. La struttura in un’unica arcata mette meglio in risalto la continuità del materiale musicale e la presenza dei motivi conduttori, a discapito della partizione in numeri ereditata dalla tradizione italiana. E, in tempi di austerity, non ci si può certo lamentare del fatto che un’inaugurazione senza intervalli sia per forza di cose meno mondana.
Gianandrea Noseda, alla guida dell’orchestra del Regio, ha sottolineato, fin dalle conferenze e interviste di presentazione, la sua concezione dell’Olandese come unica “colata di lava”, che ha voluto realizzare con una direzione sempre tesa e avvolgente. Il coro, in doppia formazione (insieme a quello del Regio cantava il Coro “Maghini” di Torino), ha retto perfettamente la prova che gli spetta all’inizio del III atto, rendendo viva con la sola forza dell’espressione musicale una scena che la regia faceva di tutto per privare di significato. Nell’ultimo atto, infatti, si sono toccati al massimo grado i difetti di un’impostazione registico-scenografica che elimina gli ambienti esterni (in cui si dovrebbero svolgere due terzi della vicenda) per collocare tutto in una stanza chiusa: il mare, di cui tutta l’opera vive, si intravvede solo attraverso una porta che si apre e chiude (posta, per di più, su una parete diagonale, con la conseguenza che dal lato destro della sala non si percepisce nemmeno ciò che vi sia al di là della soglia). Cosicché, nella scena iniziale del III atto, non si vedono le navi ancorate nel porto con la festa dei marinai (a bordo) e delle ragazze del luogo (sul molo), cui risponde la spettralità del vascello dell’Olandese, popolato di fantasmi; ma un andirivieni di gente che si muove in un salone scambiandosi frasi di cui non si comprende il legame con la realtà, né tanto meno si capisce a chi si rivolgano quando non parlano tra di loro. Nella scena finale, poi, si è svelata l’interpretazione che sta alla base della regia: Senta si pugnala (alla Butterfly…) nel chiuso della sala in cui tutta l’opera si è svolta, tra gli sguardi inorriditi dei compaesani, vittima delle proprie ossessioni, che sono origine e sostanza dell’intera vicenda. Peccato che questo faccia a pugni col finale di redenzione pensato da Wagner. Ciò non vuol dire che la regia sia da buttare: specialmente nei primi due atti, alcuni effetti scenografici e di luce, per chi siede al centro della sala, sono suggestivi; e i rapporti interpersonali dei protagonisti sono sempre individuati con perspicacia.
La prima compagnia ha avuto una punta di diamante nell’interpretazione di Senta del soprano Adrianne Pieczonka, dalla voce ferma e sicura, nitida nei piani e incisiva nei forti, capace di una ballata dai contrasti espressivi estremamente curati; centrata, poi, la lettura del duetto con l’Olandese che conclude il II atto, di cui è stata messa in luce la natura di doppio monologo parallelo, nel quale i personaggi seguono i propri pensieri senza mai realmente incontrarsi. Protagonista del duetto, accanto alla Pieczonka, il basso-baritono Mark S. Doss, un Olandese prostrato dalla sua sorte ineluttabile, che, già nell’aria del I atto, con l’attenzione prestata all’emissione ed agli accenti, trasuda un senso di disperazione senza rimedio: solo a partire dal duetto con Daland la sua figura maledetta riesce ad esprimere il proprio lato umano. Il duetto con Daland è stato un po’ penalizzato dal mancato equilibrio delle voci: il basso Steven Humes, infatti, si è rivelato poco “basso”, mostrando una voce decisamente più chiara di quella di Doss. Buona professionalità per il tenore Vincente Ombuena, nel piccolo ma prezioso cammeo del Timoniere. Il primo tenore, Stephen Gould, ha sfoggiato uno strumento scuro per un’interpretazione del ruolo di Erik a tratti, forse, un po’ “urlata”, ma molto attenta all’espressività delle parole: un’interpretazione, insomma, virile, sofferta ma decisa; agli antipodi, specie nell’arioso del III atto, rispetto all’altrettanto legittima interpretazione proposta dal tenore della seconda compagnia, Kor-Jan Dusseljee, voce piccina e approccio di stile belcantista: da un lato un uomo che soffre per i propri sentimenti, dall’altro un ragazzino sognatore e insicuro. Ascoltata alla prova generale dell’11 ottobre, la seconda compagnia è stata nel complesso valida. Forse era un po’ debole la Senta del soprano Ann Petersen, per alcune escursioni di registro non molto controllate e una certa difficoltà ad individuare i colori adatti a tratteggiare il personaggio; ma molto equilibrata è stata la coppia di voci gravi (questa volta un vero baritono, Thomas Hall, come Olandese, e un vero basso, Kurt Rydl, come Daland), che si è splendidamente incontrata nel duetto che conclude il I atto, dal quale è emersa la contrapposizione tra due mondi inconciliabili che tentano invano di scendere a compromessi: la gretta piccineria di Daland, resa vivida da Rydl, e l’astratta eternità del leggendario Olandese.