Venezia, Teatro La Fenice: “Tristan und Isolde”

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Lirica 2012/2013
“TRISTAN UND ISOLDE” (Tristano e Isotta)
Azione in tre atti, libretto e musica di Richard Wagner
dal romanzo in versi Tristan di Gottfried von Straßburg
Tristan  IAN STOREY
Koenig Marke  ATTILA JUN
Isolde BRIGITTE PINTER
Kurwenal  RICHARD PAUL FINK
Melot  MARCELLO NARDIS
Brangaene  TUIJA KNIHTILA
Un pastore  MIRKO GUADAGNINI
Voce del giovane marinaio  GIAN LUCA PASOLINI
Un pilota ARMANDO GABBA
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Paul Curran
Scene e costumi Robert Innes Hopkins
Luci David Jacques
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nel bicentenario della nascita di Richard Wagner
con il sostegno del Freundeskreis des Teatro La Fenice
Venezia, 29 novembre 2012 
Il titolo inaugurale dell’attuale stagione lirica del Teatro La Fenice – alternato a quello di Otello –  è Tristan und Isolde, il capolavoro wagneriano che non tornava in laguna dal 2002, quando fu eseguito in forma di concerto al Teatro Malibran, mentre alla Fenice non si vedeva dal 1993. Dramma dell’Amore e della Morte,Tristan und Isolde non è soltanto la più perfetta realizzazione artistica di un fondamentale topos romantico, quello dell’impossibilità di un legame amoroso assoluto, perché vi si oppongono le convenzioni sociali, il conformismo, la politica; è molto di più. È una riflessione, intrisa del pensiero di Schopenhauer, sull’essenza della realtà e del desiderio, che la parola da sola non è in grado di svelare se non riempita di significato dalla musica, la quale  – sempre secondo il filosofo tedesco – è, tra le arti, la sola in grado di squarciare il Velo di Maia, sotto cui si cela l’In sé del mondo ovvero la Volontà. La realtà fenomenica è illusione come illusoria è la felicità che ci promette attraverso l’inarrestabile circolo vizioso del desiderio. Nell’Handlung  (Azione) wagneriana l’ingannevole rappresentazione di tale realtà è simboleggiata dal giorno, mentre la notte corrisponde all’oblio, alla dissoluzione della volontà, in altre parole, alla morte, che eterna l’amore altrimenti destinato a rimanere inappagato proprio a causa della sua inesausta tensione verso l’assoluto. Ma un’altro aspetto rende l’opera wagneriana un esempio impareggiabile di perfetta, profonda fusione tra la musica e il dramma, con conseguenze, per così dire, metamusicali. Il prevalere nella partitura di dissonanze e cromatismi, di una continua transizione armonica senza mai arrivare ad una risoluzione non solo esprime analogicamente i presupposti filosofici cui si è fatto cenno, ma coincide anche con un reiterato indagare sulla natura della musica tonale, di cui si mette in valore – come risulterà più tardi dalla lucida analisi schoenberghiana – la naturale tensione verso la dissonanza, la dissoluzione della tonalità, che qui assurgono forse per la prima volta al ruolo di elementi fondanti una nuova estetica musicale. Come si vede siamo ben oltre il mito, classico o romantico che dir si voglia, dell’amore contrastato, della storia lacrimevole di due amanti infelici; come tutte le opere d’arte assolute, anche il Tristan esprime concetti e valori universali e per questo parla una lingua altrettanto universale, che è sintesi sublime del passato e, nello stesso tempo, il suo superamento verso il nuovo, verso il futuro.
Di questa grande ricchezza di significati, di questa nuova espressività si è fatto carico il direttore   Myung-Whun Chung. La sua lettura è lucida e sorvegliata, senza tuttavia perdere minimamente in efficacia espressiva, assecondando con intelligenza il divenire armonico – che, come si è detto, costituisce la cifra peculiare di questa partitura – senza alcuna presa di posizione preconcetta né troppo rivoluzionaria né tantomeno smaccatamente conservatrice. Si è potuta apprezzare una vera e propria magia del suono, ottenuta traendo dall’imponente orchestra prevista dal compositore di Lipsia un impasto sonoro coeso ed equilibrato, ma pur sempre incredibilmente nitido e smagliante, con l’effetto di farne apprezzare ogni particolare. Il tutto senza mai prevaricare le voci. Assolutamente stupenda l’interpretazione del preludio, che Chung affronta scegliendo dei tempi opportunamente ‘riposati’, in modo da offrire una lettura analitica di questa pagina, che è una mirabile sintesi dei fondamentali leimotive dell’opera: così fin dall’incipit, costituito dal motivo del dolore, un trattenuto lamento che si spegne verso il grave e dal successivo ascendente motivo del desiderio, legati tra loro dall’accordo dissonante per antonomasia, il celeberrimo Tristanakkord, la musica ha svelato tutta la sua struggente forza simbolico-evocativa, la sua pregnanza di significati eminentemente psicologici, che è poi dell’intera  opera, in cui il dramma è tutto interiore.
Quanto al cast, non si poteva pretendere nulla di meglio. In particolare i due protagonisti hanno affrontato i rispettivi ruoli, a dir poco impegnativi anche sul piano ‘atletico’, dimostrandosi perfettamente all’altezza sia per quanto riguarda la tecnica vocale sia sotto il profilo interpretativo. Il tenore scozzese  Ian Storey ci ha offerto un  Tristan dalla voce estesa ed uniforme, potente e duttile, pur con qualche vibrazione talora eccessiva, a delineare un eroe saggio, allucinato, nobile, vibrante a seconda dei momenti della vicenda. Assolutamente irresistibile l’interpretazione da lui resa nel terzo atto con espressionistica tensione mai eccessiva, esteriore, ma generata dal profondo come la sua ferita.
Gli ha corrisposto un’Isolde (interpretata da Brigitte Pinter, per la prima volta nei panni della principessa irlandese), che ha sfoggiato una vocalità corposa e brillante, in grado di affrontare con disinvoltura  le asperità della sua parte, che prevede una tessitura piuttosto estesa, sapendo essere maga insinuante e misteriosa, nonché fanciulla inizialmente sdegnata e altezzosa e poi completamente sottomessa alla Minne. L’ha sorretta egregiamente Tuija Knihtilä, una, una  Brangaene, affettuosa e materna, forse dal timbro un po’ troppo giovanile.
Appassionato il Kurwenal di Richard Paul Fink, che diventa vagamente macchiettistico mentre dileggia Isolde nel primo atto, ma si riscatta nel terzo, dove vibra all’unisono con i tormenti e poi con l’incontenibile gioia dell’amico morente. Autorevole e dotato di una voce nobilmente timbrata Attila Jun come Koenig Marke, ad esprimere profondo rammarico e strazio per l’onta subita pur con la pacatezza con cui Wagner ha voluto connotare il personaggio. Tagliente la vocalità, seppur troppo vibrata, del perfido Melot, interpretato da  Marcello Nardis. Ottimo Gian Luca Pasolini, che ha intonato con precisione ed efficacia i versi della sua canzone. Altrettanto si può dire di Mirko Guadagnini (Un pastore) e Armando Gabba (Un pilota). Preciso e duttile anche il coro istruito da  Claudio Marino Moretti. Unico neo sul piano dell’esecuzione musicale l’impossibilità di sentire le trombe fuori scena che dovrebbero chiudere festosamente il primo atto. Ovviamente i due protagonisti hanno dato il meglio di sé nel duetto del secondo atto, sorretti ancora una volta dal gesto chiaro e  autorevole di Chung. Entrambe le voci svettavano sulla nutrita sonorità delll’orchestra con omogeneità timbrica, fraseggio nitido ed espressivo, giusta accentuazione psicologica fino al climax finale.
Ma occupiamoci degli aspetti visivi. Ancora una volta ci è parso che la ricerca del nuovo, dell’originale non abbia prodotto esiti apprezzabili e, quel che è peggio, abbia finito per non servire adeguatamente il testo e la musica. Probabilmente le intenzioni del regista Paul Curran e dello scenografo  Robert Innes Hopkins erano buone, cioè finalizzate a ridurre all’essenziale gli aspetti esteriori di un dramma che era già scritto nell’inconscio dei personaggi e che il filtro non fa altro che portare alla luce. A questo scopo le scene sono assolutamente stilizzate e geometrizzanti, mentre la gestualità è estremamente contenuta. Tutto bene in linea di principio, solo che i risultati estetici, a nostro avviso, sono tutt’altro che esaltanti, anzi a dire il vero piuttosto sciatti e monotoni: dalla stilizzata stiva di poppa, nel primo atto, entro cui è posta una sorta di gabbia in cui si vedono Tristan e Kurwenal giocare a carte, incuranti del tormento di Isolde; all’albero fossilizzato, che campeggia nell’atto successivo, di fronte a due grigiastri edifici dalla superficie convessa, sotto cui i due amanti vivono la loro estasi erotica senza quasi toccarsi; ai costumi di uno smorto eclettismo atemporale. Oltre tutto la coerenza rispetto a questa impostazione salta in modo alquanto evidente nell’ultimo atto quando Tristan alzandosi dalla poltrona in cui giaceva lascia vedere su di essa estese chiazze di sangue; una bassa macelleria di cui avremmo fatto volentieri a meno. Ciononostante il trionfo finale giustamente non è mancato sia  per i cantanti, sia in particolare per il maestro Chung, che si è confermato uno dei beniamini del pubblico della Fenice.  Foto Michele Crosera