Bari, Teatro Petruzzelli, Stagione Lirica 2013
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito, da Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello, moro, generale dell’armata veneta CLIFTON FORBIS
Desdemona, sua moglie JULIANNA DI GIACOMO
Jago, alfiere CLAUDIO SGURA
Emilia, sua moglie SARA FULGONI
Cassio, capo di squadra FRANCISCO CORUJO
Roderigo, gentiluomo veneziano MASSIMILIANO CHIAROLLA
Montano, già governatore di Cipro ROBERTO ABBONDANZA
Lodovico, ambasciatore della Repubblica Veneta LUCA TITTOTO
Coro e Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Coro di voci bianche “all’Ottava”
Direttore Keri-Lynn Wilson
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Voci bianche dirette da Emanuela Aymone
Regia Eimuntas Nekrošius
Scene Marius Nekrošius
Costumi Nadezda Gultiajeva
Luci Audrius Jankauskas
Nuovo allestimento della Fondazione Petruzzelli di Bari
Bari, 19 gennaio 2013
Una donna sul podio, un’orchestra di recente formazione con un’età media inferiore ai trent’anni, regia di Eimuntas Nekrošius. Basterebbero questi tre dati per lasciare intendere l’eccezionalità del nuovo allestimento dell’Otello verdiano prodotto dalla Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari. Pare davvero che per il politeama barese sia iniziata un’autentica rinascita sul fronte della qualità e del ‘peso’ internazionale degli spettacoli messi in scena.
Le idee sottese alla gestualità visionaria del teatro di Nekrošius si sono combinate in un gioco di sovrapposizione (verrebbe da dire ‘polifonico’) con la scrittura di Boito e Verdi fin dagli attimi precedenti all’alzata del sipario: sul tessuto rosso di quest’ultimo veniva infatti a proiettarsi un quadrato di luce, simbolo visivo del fazzoletto che tanta parte ha nell’innesco della catastrofe, ritagliato beffardamente con forbici sartoriali da Jago per farlo proprio. Su quella stessa sagoma quadrata, spostata a terra, si inginocchierà Otello per intonare il monologo del suo disfacimento interiore, della sua fine. Un filo sottile, dunque, quello che il regista pone tra gli estremi che perimetrano il consumarsi del dramma, realizzato con un gesto altrettanto impalpabile, fatto di sola luce (l’elemento, la luce elettrica, che nel 1887 affascinò Verdi per il nuovo dispiegamento di effetti speciali che consentiva d’ottenere sulla scena). Non è dato sapere se il regista abbia consultato le meticolose disposizioni sceniche Ricordi che fissano il primigenio allestimento; là vigeva una netta bipartizione dello spazio scenico che Nekrošius di fatto ha rispettato: per la scena ticoscopica della tempesta iniziale il sipario si apre solo per metà; per tutta l’opera sulla sinistra si colloca una pedana fissa circolare, simbolo della spirale che attanaglia l’attività psichica del protagonista; lo stesso coro (qui ottimamente preparato, come non mai, da Franco Sebastiani e da Emanuela Aymone per le voci bianche) si bipartiva tra zone di immobilità (sulla sinistra) e altre di dinamismo (sulla destra) coordinando gesti chiamati a far da cassa di risonanza emotiva al canto e al gesto dei personaggi, movimenti minimi con cui Nekrošius è stato capace di rivitalizzare la funzione classica, greca, della coralità. L’uso immaginifico degli oggetti – che qualche anno fa toccò le vette del sublime nella riduzione teatrale dell’Anna Karenina di Tolstoj – qui è più contenuto rispetto alle abitudini di Nekrošius: l’«assalto furibondo» di Cassio e Montano vede le spade sostituite da proiettori che accecano il pubblico con uno sfavillio violento (di nuovo l’idea d’una teatralità fatta di sola luce) e una benda rossa simboleggia il sangue che sgorga da Montano; sacchi di iuta diventano ambasciatori e un enorme nappo nero da tendaggio può effigiare l’ombra della ragione dove restano impigliate le dramatis personae. Come sempre anche in quest’occasione Nekrošius prosciuga il contesto ambientale per concentrarsi su immagini metaforiche, su gestualità connotative afferenti a una stratificazione di codici attoriali occidentali e orientali, qui aiutato dall’ulteriore prosciugamento operato sulla scenografia da suo figlio Marius: la sagoma di un castello, tratteggiata con linearità infantile; elementi radianti; colombe-burattini messe in azione dopo il soffocamento di Desdemona; enormi ali di colomba che seguono la protagonista per formarne prima il letto nuziale/di morte e poi una sorta di mandorla o di vulva, dove Otello va a morire ricongiungendosi con l’amata. L’oscurità dell’impianto scenografico e il grigiore dolente dei costumi di Nadezda Gultiajeva (abiti di tradizione lituana nel cromatismo del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo) è risultata funzionale all’esaltazione degli oggetti e degli attori in linea con un simbolismo teatrale (mai statico) che si sposava appieno con il simbolismo musicale dell’ultimo Verdi. Questo connubio così perfetto ha reso più semplice il lavoro sui cantanti-attori, chiamati a mettere da parte la prossemica tradizionale per accettare di farsi marionette grottesche, articolate da gesti stilizzati e talora allusivi al mondo ferino (Otello accenna a mordere Desdemona sulla nuca come farebbe un leone con una leonessa).
Premesso l’estremo fascino esercitato dalle invenzioni di Nekrošius, va detto che tra le voci si stagliava per perfezione di emissione e fraseggio quella di Julianna di Giacomo, soprano dal timbro ricco e variegato, duttile e cristallina, precisa e intensa sul piano espressivo. Più incerto e torbido l’Otello di Clifton Forbis, che, inizialmente affossato dall’orchestra, palesava un vero impaccio (vocale e attoriale) poi sfumato nel secondo atto. Ben più convincente la prova del basso-baritono brindisino (classe 1974) Claudio Sgura, pastoso nella zona centrale, nitido in quella acuta e brunito (anche se non troppo potente) in quella grave. Al suo Jago forse mancava un certo satanismo nel modo di proporre la propria corporeità (peraltro imponente in altezza) ma di certo non è mai caduto nel rischio di concedere spazio ai manierismi attoriali che appesantiscono questo straordinario personaggio. Di buon livello la prova delle parti di fianco:Francisco Corujo (Cassio), Massmiliano Chiarolla (Roderigo), Roberto Abbondanza (Montano), Luca Tittoto (Lodovico). Una particolare per Sara Fulgoni, una Emilia di grande intensità emotiva (peraltro esaltata da Nekrošius in sequenze dove fasci di luce la esaltavano come personaggio chiave del dramma, un alter ego di Jago destinato alla redenzione; il colore viola dell’abito a questo alludeva). Ottima la prova direttoriale di Keri-Lynn Wilson: mano sinistra sicura e inflessibile, mano sinistra eloquente, gesto contenuto e al tempo stesso intenso, segno di una disciplina e di una sensibilità che non di rado contrassegnano il mondo femminile. Ricca di colore, misurata e attenta la giovane orchestra del Petruzzelli, segno eloquente di un cambio di rotta che farà solo il bene del capoluogo pugliese. Il governatore Vendola ha assistito all’intero spettacolo, contornato dalle maggiori figure istituzionali della città; pubblico numerosissimo (elegantissimo), anagraficamente trasversale, entusiasta e generoso negli applausi. Prossime repliche il 22, 24, 27 e 29 gennaio.