“Verdi e il potere”: modelli letterari, arie e balletti per un anniversario

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione concertistica  2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI 
Direttore Roberto Abbado
Voce recitante Remo Girone
Soprano Nkosazana Dimande
Baritono Dario Solari
Bassi Dmitrij Beloselskij, Alexei Tanovitsky
Tenore Dario Prola
Giuseppe Verdi: I Masnadieri, Preludio
Attila, “Mentre gonfiarsi l’anima” – scena e aria di Attila;  Preludio
Aida, “Qui Radames verrà … O cieli azzurri” –  “Rivedrai le foreste imbalsamate” – duetto di Aida e Amonasro, Atto III
Macbeth, Ballabili, Atto III;  “Perfidi! All’Anglo … Pietà, rispetto, amore” – scena e aria di Macbeth, Atto IV
Don Carlo, “Restate” – duetto di Rodrigo e Filippo, Atto II;  Ballo della Regina, Atto III;  “Ella giammai m’amò” – scena e cantabile di Filippo, Atto IV;  “Il Grande Inquisitor” – scena e duetto di Filippo e il Grande Inquisitore, Atto IV
Otello, Ballabili, Atto III
Torino, 11 gennaio 2013

I concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI hanno inaugurato il 2013 con un omaggio all’opera di Verdi, nel bicentenario della nascita; molto originale la struttura del programma, in cui si alternavano letture, brani sinfonici, scene di melodramma, proprio perché il motivo conduttore (Verdi e il potere) si ritrova con tale frequenza da indurre alla selezione, all’antologia, agli accostamenti. Curatore del programma ed estensore delle pagine critiche a illustrazione dei brani e dei loro modelli letterari è Cesare Mazzonis, direttore artistico dell’OSN RAI di Torino, il quale firma anche la presentazione nel programma di sala (Verdi e i volti del potere). Lettura e recitazione sono invece affidate a Remo Girone, abilissimo nell’avvicendare il tono didascalico alla recitazione dell’attore di lungo corso, allorché la pagina verdiana richiama la fonte (Shakespeare, Schiller). Il fil rouge sul potere, ripercorso da Mazzonis nel teatro verdiano, si annoda in tante citazioni, anche molto preziose, da Racine a Canetti, da Frazer a Benjamin, ma è costantemente adattato alle dinamiche e alla drammaturgia verdiane. Alla coerenza e all’urgenza di queste ultime si dedica intensamente il direttore d’orchestra, Roberto Abbado, che nella concertazione di preludi, ballabili, scene d’opera, non fa certo rimpiangere la forma scenica; anzi, le riflessioni di Mazzonis da una parte e il canto degli interpreti dall’altra sono di volta in volta accentuati da quelle partiture del Verdi considerato “minore” che sono i ballabili di alcune opere (o, per meglio dire, delle loro versioni parigine). Ma Abbado ha inteso il balletto non come momento distensivo, rasserenante ed elegante entr’acte; e giustamente, perché il balletto costituisce l’inciso sinfonico in cui la tensione drammatica coagula al centro dell’opera, per esplodere successivamente in vista della catastrofe finale (caso emblematico, a questo proposito, il Macbeth; forse meno riuscito il Ballet de la Reine dal Don Carlo).
I personaggi evocati dal rapporto truce e distruttivo con il potere sono nell’ordine Attila, Amonasro con la figlia Aida, Macbeth, Filippo II con Rodrigo e il Grande Inquisitore; dunque regnanti, o rappresentanti di un potere assoluto che confligge con autorità diverse dalla propria; ma anche personalità in preda al dubbio, rovinate dalla malvagità e dal rimpianto, a volte tentate dal pentimento, verso le quali affiora «la pietà verdiana per tanta sofferenza» (Mazzonis). Ai cantanti spetta un compito non facile, rappresentare conflitti interiori e sofferenze di caratteri detratti dal loro contesto originario e naturale (la scena teatrale), perché risaltino sul palcoscenico dell’Auditorium RAI sulla scorta del solo elemento musicale, in tutta la sua autonomia. Tra i quattro artisti principali Dmitrij Beloselskij è il più corretto ed efficace: nell’arioso e nella cabaletta da Attila la voce è ancora un po’ fibrosa e penalizzata da un vibrato largo, con qualche acuto forzato e non del tutto fermo, mentre migliora sensibilmente nelle tre scene dal Don Carlo. «Ella giammai m’amò» è senza dubbio la pagina solistica meglio riuscita della serata, unitamente ai duetti con baritono e basso: Beloselskij interpreta molto bene la pretesa autorevolezza di Filippo, incrinata dai rimpianti e dalle insicurezze; il basso riesce dunque molto meglio nella vocalità ripiegata e intensa del monarca spagnolo che non negli slanci appassionati di Attila. Dario Solari deve cimentarsi in due pagine impervie: il duetto con Aida e l’aria finale dal Macbeth, a conclusione della prima parte del concerto; dopo l’intervallo è Rodrigo nel duetto dal Don Carlo. Tre ruoli baritonali che riassumono bene l’attenzione di Verdi per questa categoria vocale: il padre che si trasforma in oppressore, il re sconfitto, il nobile idealista e libertario; tutti e tre destinati inequivocabilmente alla sciagura. Solari (ascoltato recentemente nel Belisario di Donizetti a Bergamo) ha voce un po’ troppo leggera per Amonasro e Macbeth, tant’è vero che non si percepisce nei momenti di espansione sonora dell’orchestra; il cantante indulge un po’ troppo ai portamenti e alle emissioni di gola, ed è in difficoltà negli acuti (specie in Aida); il suo Macbeth è garbato, ma tutto sommato poco convincente, prima di tutto a causa del limitato volume vocale.
Nkosazana Dimande, soprano di origini sudafricane, è un’Aida dalla voce un po’ acerba, e dal registro disomogeneo; forse perché ha il difficile compito di attaccare a freddo «O cieli azzurri», canta con un vibrato stretto abbastanza fastidioso (che fortunatamente si attenua a metà della scena); però non appoggia troppo bene i fiati, e produce risonanze di effetto discutibile, specie negli acuti. Purtroppo Abbado, impegnatissimo a far risaltare le finezze della partitura verdiana, non segue a sufficienza i cantanti proprio nel duetto di Aida: sia Dimande sia Solari, talora sovrastati dall’orchestra, appaiono un po’ impacciati negli attacchi delle rispettive battute. Alexei Tanovitski è un Grande Inquisitore dalla voce ragguardevole ma dagli acuti tremuli nella prima parte del duetto con Filippo II; in generale, problematica è la tenuta della singola nota, poiché il suono tende (forse per un difetto di respirazione) a distorcersi e a risuonare in gola. Corretto il tenore Dario Prolo (Uldino e Conte di Lerma). Ai cantanti verdiani, e soprattutto ai creatori storici dei ruoli rievocati durante la serata, è dedicato il saggio di Giorgio Gualerzi all’interno del programma di sala (Avanti i primi).
La scelta di alternare ad arie e scene d’opera i ballabili del Macbeth, del Don Carlo e dell’Otello è particolarmente felice, non tanto perché il concerto mantiene così un suo respiro sinfonico (in altra occasione si sarebbe attinto al ricco catalogo di ouvertures e preludi verdiani), ma perché sono presentate al pubblico brani eseguiti di rado, su cui gravano anche pregiudizi estetici di vecchia data. Con le pagine orchestrali, poi, ha modo di spiccare anche il virtuosismo di alcuni strumenti solisti: nel Preludio dai Masnadieri (come nell’introduzione all’aria di Filippo II) l’assolo di violoncello (affidato a Pierpaolo Toso) e nel balletto del Don Carlo l’assolo del primo violino (Roberto Ranfaldi). Certamente la parte sinfonica costituisce l’aspetto musicalmente più interessante di tutta l’esecuzione, sia nelle scene di canto, in cui ogni ripresa strumentale s’impone all’attenzione dell’ascoltatore, sia in quelle destinate alla coreografia. Abbado scandisce molto bene i ritmi dei vari passi di danza, e soprattutto rimarca gli accenti di ogni frase, a scopo espressivo, per evitare la monotonia dell’Umtata-Musik in cui i ballabili verdiani possono facilmente cadere (da cui le accuse, anche da parte di illustri musicologi, di “ballo dell’orso”, di musiche “dell’aia di Busseto”, e così via; interessante, nel programma di sala, la riflessione dedicata ai balletti nello scritto di Alberto Mattioli, Verdi e il potere).
Se le danze del Macbeth, tra le tre proposte, sono certamente le più celebri e apprezzate, Abbado dedica pari impegno anche a quelle meno fortunate del Don Carlo: sgargianti e bellissime le sonorità “sottomarine” della Peregrina, sempre grazie ai forti accenti ritmici e alla cura dei contrasti; il direttore punta sulla varietà stilistica, contrapponendo le fanfare solenni, con gli ottoni spiegati e nitidissimi, ai colorismi e alle leggerezze del Prestissimo (brano assurto di recente all’onore delle cronache, poiché inserito da Franz Welser-Möst nel viennese Concerto di Capodanno, quale omaggio a Verdi). A conclusione del concerto un altro balletto di esecuzione abbastanza rara (ma reso celebre a suo tempo dall’interessamento di Toscanini), quello dell’Otello, dei tre il più breve. Dopo una resa molto discreta e leggera degli esotismi d’apertura, Abbado valorizza gli squilli rabbiosi degli ottoni, che richiamano i «titanici oricalchi» del coro d’avvio dell’opera, e le armonie sempre corali del «Fuoco di gioia!». Appunto, la gioia e l’entusiasmo che il pubblico ha calorosamente tributato a tutti gli artisti al termine della bella serata.