«Il nostro è amore d’anime!» Andrea Chénier al Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri, libretto di Luigi Illica.
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier MARCELO ÁLVAREZ
Carlo Gérard ALBERTO MASTROMARINO
Maddalena di Coigny MARIA JOSÉ SIRI
La mulatta Bersi GIOVANNA LANZA
La contessa di Coigny / Madelon CHIARA FRACASSO
Roucher GABRIELE SAGONA
Il sanculotto Mathieu FEDERICO LONGHI
Un “Incredibile” GIANLUCA FLORIS
Pietro Fléville MATTEO PEIRONE
Fouquier Tinville SCOTT JOHNSON
L’abate LUCA CASALIN
Schmidt FABRIZIO BEGGI
Dumas FRANCO RIZZO
Il maestro di casa GHEORGHE VALENTIN NISTOR
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Lamberto Puggelli
Scene Paolo Bregni
Costumi Luisa Spinatelli
Movimenti coreografici Tiziana Tosco
Luci Bruno Ciulli
Produzione del Teatro Regio di Torino
Torino, 30 gennaio 2013

Ascoltare negli stessi giorni, e presso lo stesso teatro, due melodrammi con molte affinità di carattere storico, letterario e stilistico come La bohème e Andrea Chénier è esperienza davvero interessante, resa possibile dal Regio di Torino. Nella sua storia i titoli sono del resto abbinati sin dall’inizio, poiché entrambi andati in scena per la prima volta nel 1896: Bohème il 1. febbraio al teatro piemontese, Chénier il 28 marzo alla Scala, ma a Torino già il 27 dicembre; e al Regio entrambe le opere furono dirette quello stesso anno da Arturo Toscanini (anche oggi alla guida dell’orchestra e delle compagnie di cantanti è uno solo: Renato Palumbo ha diretto tredici recite complessive in soli quindici giorni); i libretti sono a firma di Luigi Illica (e Giuseppe Giacosa per la pièce pucciniana) e l’azione è sempre ambientata a Parigi, ancorché in anni diversi. Comprensibilmente, l’impostazione musicale così differente di Puccini e di Giordano restituisce un quadro significativo delle tendenze del teatro musicale italiano di fine Ottocento, al centro di innovazioni radicali, nuove scuole nazionali, richiami alla tradizione.
Chénier è opera solitamente molto apprezzata dal pubblico, ma negli ultimi anni non più così frequente nei cartelloni dei teatri italiani; a Torino mancava dal 2003, e quindi la ripresa è stata accolta con interesse e viva curiosità. Considerata la coralità della locandina, i tanti personaggi, i ruoli diversificati, è opportuno procedere a una rassegna delle voci in campo, a cominciare naturalmente da quella del protagonista. Marcelo Álvarez è un Andrea Chénier convincente, anche trascinante, a considerare l’entusiasmo che il pubblico gli tributa dopo ogni pagina impegnativa (e ne ha ben tre da solista, più i due duetti con Maddalena); la voce ha squillo e robustezza, nelle parti più cantabili il fraseggio è assai curato (bellissimo – forse il momento migliore dell’esecuzione – l’attacco di «Come un bel dì di maggio», l’aria del IV quadro), ma ad ascoltare attentamente la stessa voce appare anche affaticata, spossata da eccessiva fatica, con qualche cedimento nei centri e qualche forzatura negli acuti (un po’ sbiancati nel timbro). Il tenore scandisce le frasi di «Un dì all’azzurro spazio» con accenti ben marcati, ma anche con pause che interrompono la fluidità dell’aria (in cui proprio il legato dovrebbe giocare un ruolo importante). Risulta tutto sommato un po’ datato il modo con cui Álvarez intende il verismo nell’arioso del III quadro «Sì, fui soldato», cantato con esibizione muscolare di voce, a detrimento del fraseggio e dell’espressività; perfettamente a suo agio come attore, il cantante ottiene comunque dal pubblico un riconoscimento molto caloroso. Alberto Mastromarino è un Carlo Gérard efficace sul piano scenico, ma parecchio affaticato nella vocalità: con un registro difforme nelle varie zone della tessitura, già alla fine del II quadro abdica al canto lirico per prediligere le inflessioni del parlato e del declamato. Ed è un vero peccato che la voce non corrisponda alla bravura dell’interprete, capace di rendere credibile nella recitazione e negli accenti il complesso personaggio di Gérard, prima ardente libertario, poi sordido profittatore del potere rivoluzionario, infine nobile difensore del poeta che egli stesso aveva in precedenza sfidato e accusato. Maria José Siri è una Maddalena appassionata ed espressiva, messa un po’ alla prova dagli acuti del duetto del II quadro e della celebre aria «La mamma morta» del III; dà il meglio di sé nel duetto finale «Vicino a te s’acqueta», come hanno dimostrato anche le acclamazioni degli spettatori. Giovanna Lanza è una Bersi efficace, anche se talvolta tende a un’emissione un po’ enfatica. Con questi quattro ruoli Giordano osserva la struttura tipica del quartetto tenore-baritono-soprano-mezzosoprano, ai quali sono consegnate le maggiori difficoltà della partitura. Seguono i molti personaggi minori, con i rispettivi interpreti: Chiara Fracasso convince assai più come Contessa di Coigny che come Madelon. Gabriele Sagona impersona un Roucher molto corretto, considerato che nel II quadro deve sostenere un duetto con il tenore. Gianluca Floris è perfetto nella parte dell’Incredibile, insinuante e maligno come il carattere richiede. Apprezzabili nel complesso le prestazioni degli altri interpreti. Le difficoltà incontrate dai cantanti nel corso dell’esecuzione confermano un giudizio risaputo, in merito all’opera verista: questo tipo di vocalità è arduo da affrontare, sia per le frequenti mutazioni di registro e per l’insistenza sulle zone di passaggio, sia per le sonorità orchestrali con cui misurare fiato ed emissione.
Il direttore Renato Palumbo, del resto, non rinuncia a un volume del suono marcato, a volte anche debordante: l’effetto principale è certamente una magnifica nitidezza strumentale in cui nulla va perduto, ma effetto secondario è lo sforzo aggiuntivo richiesto ai cantanti. In alcuni momenti l’orchestra è davvero mirabile protagonista: dalle delicatezze pseudo-settecentesche del quadro iniziale agli arcaizzanti squilli di corno che annunciano il passaggio di Robespierre nel II; per non dire degli accordi dell’arpa nella stretta del duetto finale, in alternanza al tremulo degli archi che accompagna le ultime frasi degli amanti: un disegno musicale solitamente coperto, in realtà argomento prezioso per valorizzare la complessità della partitura. «Amabil persiflaggio», come dice il mellifluo Fléville; ecco in due parole la cifra dell’allestimento di Puggelli per il I quadro, differente dai tre successivi in quanto unico a essere ambientato prima dello scoppio della Rivoluzione Francese, e per di più in un interno aristocratico (i quadri II e IV si alternano invece per un’ambientazione in spazi esterni). La serra-salotto della Contessa di Coigny diventa un contenitore di abiti sfarzosi e di esagerate parrucche, vaporose e abnormi fino al ridicolo, come ridicoli sono per lo più gli ospiti della Contessa, tra abatini e vecchiette imbellettate, tutti impegnati a intonare egloghe di pastori, all’insegna di un mondo che muore. Molto bello l’effetto finale del quadro, allorché gli esponenti dell’ancien régime continuano la loro gavotta sprofondando lentamente nel buio, mentre da un lato del proscenio avanzano con fermezza gli uomini del neonato terzo stato.
«Febbre gaja d’un godere / rapido» caratterizza invece la scena degli altri tre quadri, nel delirio di morte sotto Robespierre; tutto, nello spettacolo di Puggelli, resta però estremamente elegante e raffinato, perfino le poltroncine di velluto rosso del Caffè Hottot presso la terrazza dei Feuillants. Grandi strutture lignee e mobili, dalla forma inquietante (ricordano – ma non sono – la ghigliottina), ridisegnano in continuazione i contorni della scena nel II quadro, al pari dei movimenti corali nella seconda parte del III, nel tribunale rivoluzionario. Alla fine, invece, i cupi cunicoli delle prigioni si trasformano in uno spazio aperto, vuoto e luminoso, in cui Andrea e Maddalena decidono di avviarsi con gioia a nozze che coincidono con morte. E ancora una volta il sacrificio dei protagonisti, al termine di una sequenza di ingiustizie e soprusi, si trasforma grazie alla musica in sublimazione della fine (lo stesso accade, e con uguale intensità, in Bohème) e in convinta partecipazione del pubblico: grande successo per tutti gli artisti.