Inquietudini e slanci primo-novecenteschi

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Gloria Campaner
Karol Szymanowski
: Ouverture da concerto in mi maggiore op. 12
Sergej Rachmaninov: Concerto n. 2 in do minore op. 18 per pianoforte e orchestra
Béla Bartók: Il mandarino miracoloso, pantomima in un atto op. 19 su un soggetto di Menyhért Lengyel
Torino, 21 febbraio 2013  

La risposta ai fermenti musicali di fine Otto- e inizio Novecento può prendere strade molto diverse; quella di Karol Szymanowski, allorché nel 1904 compone la sua Ouverture da concerto, è senza dubbio la contaminazione degli stili più in voga, inerenti soprattutto al poema sinfonico di Strauss, alle composizioni di Korngold, al sinfonismo di Mahler, ma con una magniloquenza raffinata e protesa sulla ripetizione dell’arcata tematica di partenza. Il brano è eseguito in prima esecuzione presso l’OSN della RAI a Torino, e apre un concerto interamente dedicato a soluzioni musicali assai variegate, ma risalenti tutte ai primi anni del Novecento, senza la struttura privilegiata della sinfonia: un’ouverture, un concerto solistico, un balletto-pantomima. Juraj Valčuha avvia la serata con grande smalto, valorizzando gli ottoni della robusta orchestrazione di Szymanowski; verso la chiusa del pezzo interviene la prima viola (Ula Ulijona) per una breve ma intensa comparsa solistica prima del trionfo decorativo. Il direttore è molto a suo agio in una partitura che rielabora e intreccia temi, o anche solo allusioni alle novità mitteleuropee di quegli anni; e tale disinvoltura si mantiene anche nei brani successivi.
Per il Concerto n. 2 di Rachmaninov fa il suo ingresso la giovane pianista Gloria Campaner, al debutto presso l’Auditorium RAI di Torino. Sin dai primi accordi appare perfetto l’affiatamento tra direttore e solista, teso a porgere un Rachmaninov non conforme ai toni patetici e melodrammatici solitamente congiunti a questa partitura. Sono evitate da entrambi le sonorità plateali, perché entrambi vanno piuttosto alla ricerca degli elementi impressionisticidel concerto nato nel 1900-1901. Il I movimento, nelle sue varie articolazioni (Moderato – Allegro – Maestoso (Alla marcia) – Moderato), è staccato con tempo rilassato, quasi solenne, mentre la pianista esordisce con un suono magmatico, a tratti indistinto; i celebri accordi iniziali, misurati, quasi trattenuti, manifestano l’intento di evitare quelle inflessioni un po’ volgari in cui potrebbe scadere un’esecuzione troppo marcata. Ma Campaner non cerca neppure la bellezza del suono, a giudicare dalle modalità con cui insiste sulle sonorità scabre, sulle puntature acute e sui nervosismi del movimento d’apertura. Ancor più nel II tempo (Adagio sostenuto) i musicisti sembrano andare alla ricerca di Debussy nella filigrana delle piccole frasi: la pianista – che rivela un’attenzione analitica – più che sull’ampia campata del discorso insiste sulle singole cellule ritmiche, quasi isolandole in un’autonomia nuova, anche a costo di lieve effetto di frammentazione; il direttore non eccede mai nel volume orchestrale, trattenendo le esuberanze dei momenti più concitati per favorire piuttosto le sonorità da camera. Anche nel III movimento (Allegro scherzando – Presto – Tempo I – Alla breve. Agitato – Maestoso – Più vivo. Risoluto) Valčuha opta per un tempo lento, parallelamente a quello iniziale, con frequenti pause ed effetti di ritenendo assecondati dalla pianista. Tale impostazione fa sì che nel finale l’enfasi retorica sia percepita come opportuna novità di lettura, non come ripetizione del déjà entendu.
Il pubblico apprezza moltissimo l’esecuzione del concerto, e la pianista corrisponde alle aspettative elargendo un bis, Élégie in mi bemolle minore (dai Morceaux de fantaisie, op. 3 n. 1) dello stesso Rachmaninov: momento di grande commozione, e conferma nell’entusiasmo generale. Dopo la pausa torna protagonista l’orchestra, per eseguire Il mandarino miracoloso di Béla Bartók; non la suite tratta dalla pantomima, ma la partitura completa destinata in origine al teatro (la prima, assai sfortunata nell’esito, avvenne presso lo Stadttheater di Köln nel 1926). L’esecuzione completa in sala da concerto è abbastanza rara, perché i direttori preferiscono solitamente proporre la suite, mancante di diversi numeri e soprattutto priva della scena della morte del Mandarino. Valčuha non ha recuperato a caso la partitura integra, poiché nel corso delle precedenti stagioni egli aveva già proposto a Torino le altre due opere sceniche di Bartók, Il castello del duca Barbablù (25 novembre 2010) e Il principe di legno (5 aprile 2012); si tratta quindi di completare un piccolo ciclo bartókiano, cui il direttore ha dedicato grande impegno. Nel susseguirsi delle truci e allucinate scene della pantomima, Valčuha è molto abile a trasformare di volta in volta in protagonisti dell’esecuzione musicale singoli strumenti o famiglie, abbinati a personaggi e voci dell’azione: le viole per i malviventi, il clarinetto (Cesare Coggi) per le danze di seduzione, il trombone (Enzo Turriziani) per l’anziano signore, ancora trombone e soprattutto la tuba (Daryl Smith) per l’inquietante Mandarino. Ma al di là dei singoli colori e timbri, al di là dei ritmi indiavolati dell’imponente famiglia di percussioni, al di là anche dei vari numeri in cui emergono i protagonisti strumentali, Valčuha concerta benissimo la valenza narrativa della non facile partitura; la tensione drammatica raggiunge il punto massimo in corrispondenza di un’elaborata fuga orchestrale, rappresentativa delle coltellate e delle percosse inferte sulla scena. La lunga coda che segue, dai toni languenti e misteriosi, rappresenta la morte del Mandarino, ossia quella sequenza esclusa dalla riduzione concertistica dell’opera. Anche per questo brano il pubblico torinese dimostra caloroso apprezzamento; segno che il fascino morboso della musica di Bartók sa contrastare anche l’assenza degli elementi scenici.  Digital Photo