Interviste d’annata: Galliano Masini (1896-1986)

Il 15 febbraio 1986 moriva nella sua sua città natale, Livorno il tenore Galliano Masini. Nella sua città l’ho incontrato, nel circolo a lui dedicato. Aveva ottant’anni ed era accompagnato dal presidente del circolo che, molto gentilmente, lo sosteneva nei fantastici racconti dispensati con dovizia di particolari, esprimendosi con un linguaggio intriso di pittoresco vernacolo che riporto tal quale. Simpaticissimo e pungente, entriamo subito in argomento operistico.
Masini esordisce così: «Io cantavo in del coro, c’era la Lodoletta, tenore Carlo Broccardi e lì sentirono me e chiesero “Ma chi è?” – “È uno che si chiama Galliano di Livorno”. Allora mi mandarono a Milano a studià da un maestro che disse “mica male”. Io gli dissi “guardi che non c’ho un ventino”. “Ma come si spiega che tutti quelli che hanno una bella voce non c’hanno quarini, io non fo credenza” e gli dissi “Fa’ un guardaroba”. Allora mi mette a sedè e mi faceva raccogliere i suoni. Poi feci il mio debutto a Livorno in Tosca il giorno di Natale. A Livorno non ho studiato con nessuno, facevo il corista».
Commendatore le faccio i miei complimenti perché la trovo in gran forma. 
«L’altro giorno sono andato dal dottore e mi fa “Lei c’ha un piccolo enfisema, soffia davanti e di dietro” – Come i gatti, deh!».
Noi giovani non abbiamo avuto il piacere di sentirla in teatro e ci dobbiamo accontentare di quello che hanno scritto e delle poche incisioni. Direi che ha sempre ottenuto grandi successi. 
«Il più grande successo che ho avuto è stato a Chicago in Tosca. È capitata una cosa mai successa nella mi’ vita. Lì non era possibile bissare, ma non si andava più avanti e allora arrivò la polizia e mi toccò bissare. La mattina dopo scrissero tutti i giornali di questo fatto: a loro non gli pareva vero».
Prima lei accennava ad una Turandot a Caracalla, me ne può parlare? 
«Alle Terme di Caracalla si fa Turandot diretta dal Maestro Serafin. Io e la Callas, la Olivero era Liù. Allora ci fu un baritono che chiamavano “veleno” Emilio Gherardini. Venne su a salutarmi dopo “Gli enigmi sono tre” e mi fa “Galliano ho sentito un Do che non ho mai sentito in tempo di mi’ vita: bravo”. Questo era il baritono “veleno” quindi ti puoi immaginare che nota deve aver sentito. Basta non c’ho da dir altro».

 Lei prima mi ha detto che nel registro acuto partiva già largo e lo rinforzava ancora. Ci può spiegare a parole come teneva la gola, che sistema usava? 
«Io tenevo larga la gola, poi passare da Fa – Fa diesis – Sol raccoglievo e preparavo il suono per andar su. Tutto sta in Fa – Fa diesis – Sol da mettere a posto: questo è il fondamento per andare su. Se vogliono cantare i giovani devono raccogliere questi suoni, ma non imbottigliarli o intubarli».
Sui libri di sala dell’Arena di Verona ho trovato: Galliano Masini 1935 Cavalleria rusticana, con Lina Bruna Rasa, Gilda Alfano e Carlo Tagliabue, direttore Gino Marinuzzi. Di questa Cavalleria ha qualche ricordo particolare? 
«Niente: l’”addio alla mamma” venne giù l’universo. M’è rimasta impressa una cosa sola che Santuzza, la Bruna Rasa, l’andava via vestita da Santuzza invece di struccarsi, allora tutta la gente la guardava, poverina non c’era con la testa».

Continuiamo: 1936 Aida. Roberto Morisani (Re), Nini Giani (Amneris), Maria Caniglia (Aida), Tancredi Pasero (Ramfis), Ettore Nava (Amonasro), (Radames) Masini, direttore Tullio Serafin.  
«Fu una rivelazione, sedici recite e fu l’ultima prima della guerra. Finita la guerra son tornato nel ’46 e ho rifatto Aida. Ricordo che era tutto esaurito, il pubblico aveva invaso tutta l’Arena anche sotto, in mezzo alle poltrone. Cantai “Celeste Aida” in mezzo a una confusione incredibile, ma il Maestro Serafin andava avanti. Poi, finito l’impegno, andai a Milano a inaugurare il Palazzo dello sport con l’Aida perché la Scala era bombardata e c’era anche Toscanini. A Milano mi mandarono un telegramma degli amici di Verona “Caro Galliano questa sera ha cantato Del Monaco che è il tu’ nipote in dell’Aida”».
Lei ha cantato al chiuso e all’aperto. Ci sono degli accorgimenti particolari da prendere quando si canta in un’arena o in un teatro chiuso? 
«Eh, dal giorno alla notte! L’unico teatro dove si canta bene all’aperto è l’Arena di Verona, specialmente dopo l’undici quando è tutto in silenzio. Caracalla è un campo. Ho fatto un’Aida la prima volta al Prater di Vienna, sessantamila persone. Io andai per Cavalleria, ma purtroppo c’era Pertile e davanti a lui mi levo il cappello, ma si vede che non stava bene e fece meno recite. Allora venne da me il Maestro Failoni e mi disse “Lei la sa l’Aida?” – “Ma non è mica la Pinotta l’Aida, l’ho studiata ma ‘un l’ho mia mai fatta” – “La vorrei sentire, venga su domattina”. Andai con l’impresario, sig. Ciro Ragazzini, e provo. Cantai tutto forte, anzi mi rammento una cosa: scaldai la voce in albergo alle sette della mattina e manca poco che mi buttan fori. Finisco l’audizione e il Maestro Failoni mi fa “Onorato di diriger l’Aida con lei”. Andai in scena e piantai un chiodo che è rimasto memorabile: ero io, Nava, Pinza e la Rethberg. Da quell’Aida lì, tutte Aide in tutt’Italia».

Un tenore con le sue caratteristiche quale repertorio dovrebbe fare? 
«Bohème, Turandot, Aida. Ero un tenore lirico accentuato, lirico spinto, non drammatico che vuol dire un tenore che è corto, che arriva fino al La naturale».
Lei ha lasciato inciso un’opera: La forza. Circa la vocalità di Don Alvaro cosa ci può dire? 
«Io auguro a un tenore che l’ascolti e ci impari a cantare. Perché lì c’è l’emissione che è messa di molto bene. Ma che la sentino bene: “O tu che in seno agli angeli”, il duetto della barella, il duetto finale e tutta quella robina lì. Che la piglino e sentino come passo i suoni io. Con Verdi si canta, s’impara a cantare, perché ti porta sul Si bemolle che non te ne accorgi. Mascagni è bravo ma c’ha un altro temperamento, non è Verdi».
Lei non ha mai cantato Il trovatore, ma le sarebbe piaciuto farlo? 
«Non me lo hanno mai richiesto, ma avrei voluto farlo. Di Verdi tutto, tutto, tutto perché ti fa cantà. L’Otello poi … io parlai con un artista vecchio in Galleria a Milano e mi disse “Ma ti rendi conto che Otello è l’opera più comoda che esiste per il tenore?!”. Io la studiai e vidi che aveva ragione lui. Impegnativo è il second’atto, poi è tutta roba da ride. Infatti avea ragione e questo era stato un tenore sul serio: Pasquini Fabbri. Mi disse “Rammentati Galliano, l’Otello è l’opera più tranquilla del mondo per un tenore».

Lei ha conosciuto Toscanini? 
«L’ho conosciuto, mi ci portò Montesanto alla Scala per un’audizione e mi disse “Questo è un posto dove si arriva, non ci si parte. Grazie, lei dopo che avrà debuttato venga pure».
Mi  può parlare di Titta Ruffo? 
«Titta Ruffo ‘un è stato nulla … era una cooperativa di baritoni, un coro di baritoni era. Ricordo che ho fatto un viaggio nel ’30 col Conte Verde da Genova. Lui cantava l’Amleto. Io andai come debuttante la prima volta al Colón di Buenos Aires e cantai la Lucia. Titta Ruffo mi disse questo “Senta caro Galliano, mi davano 80.000 lire a recita, se stai bono le piglierai anche te. Lo vedi questo teatro, io e Caruso lo abbiamo bombardato nei Pagliacci”. Mi disse che avrebbe cantato all’Alfieri a Livorno, un teatro all’aperto e c’andai».
Secondo lei perché Titta Ruffo è stato così grande? 
«Aveva una voce che t’imbeava. Ma l’ha sentito nel brindisi dell’Amleto?! Una ‘osa meravigliosa, la vena, l’accento. Li metteva tutti a sedere. Ho un altro bel ricordo di una Carmen a Firenze, una matinée. La mattina vado in piazza Vittorio e vedo Titta Ruffo “Oh, buongiorno commendatore com’ell’è?” – “Da un tenore come te voglio del tu perché sei un grande artista. Ieri sera ti ho sentito in Carmen e non c’è barba d’uomo che faccia un prim’atto così” – “Io la ringrazio” e mi fa “Si va a be’ ‘na menta?”».
Altri ricordi per favore. 
«Nel ’29 andai a Roma a cantare una Lucia, siccome c’era una stagione che andava a rotoli mi chiamarono all’Adriano. Io mai stato a Roma. Allora c’era un maestro del coro che disse all’impresario “Facciamo du’ recite con Masini” – “Ma chi è questo Masini?” – “Non si preoccupi!”. Dumila lire a recita. Arrivo a Roma e quella sera c’era l’Aida con Brevario tenore. Vado a teatro e vedo sui manifesti lo striscione con scritto “Due recite di Lucia col celebre tenore Galliano Masini”. C’era ‘n omo lì vicino che dice “E mo’ lo sentiremo questo celebre”. Io lo guardo bene questo qui, lo tengo d’occhio. Si va in scena e si prova al pianoforte e il maestro fa a quello che mi aveva raccomandato “Lo fai cantà forte?”. Si fecero sei esauriti.
Un’altra volta, sempre a Firenze, facevo Carmen e Adriana. C’era Lugo che faceva La bohème e non piace. C’avea ‘na bella voce Lugo, ma era freddo. L’impresario telefona al Maestro De Fabritiis e gli dice “Oliviero mi mandi Galliano pe’ fa ‘na recita di Bohème?” – “Ma guarda che oggi è lunedì e sabato c’ha la prima di Adriana e se non canta lui chi devo scritturare io? Il permesso glielo do, ma senti lui”. Mi telefona l’impresario in albergo e mi chiede se vado. Io venivo da Roma e alla stazione mi aspetta una carrozza che mi fa fare dei giri per Firenze, per far vedere che ero venuto.

Mi porta in piazza Vittorio dove c’è il covo della lirica. Ormai s’era sparsa la voce. Vado al botteghino del teatro Pagliano e mi dicono che era tutto esaurito. Telefono all’impresario “Nato d’un cane, sono quattromila persone e tu m’hai detto che c’era poca gente!” E lui mi fa “L’ho detto per non impaurirti”. Allora vò in scena e t’inciampai in una sera di gasse. Nella “gelida manina” ti pianto un Si naturale che vien giù l’universo (in realtà si tratta di un Do, e Masini si è sbagliato, ndr). E poi l’ultim’atto che successe l’affare del letto: andò via una sedia e cascai. E il ministro dello spettacolo Alfieri quando mi mandò il telegramma che ci aveva sbassato la paga, ero a Sulmona che cantava l’Aida con la signora Caniglia e allora, deh, del 25% mi sbassonno, novemila lire a recita nel ’36, invece di dodici pattuito e gli feci un telegramma: “Accetto la vostra proposta, sta bene per il primo e second’atto, mettiamoci d’accordo per il terzo e il quarto. Si prega di risponde’ seriamente”. Me li diedan tutti, deh! E allora mi comprai un brillantino, lì nel corso. E l’impresario Beatini di Firenze l’hai conosciuto? Era bravo. Una volta fa la Lucia a Firenze e allora mi manda a chiamà in albergo lì a Lucca. “Come stai Galliano, hai preso aria?” – “È da ieri che un posso parlà” – “Avevo pensato di portarti alla recita” – “Allora sto bene”. Beatini fallì, bancarotta e l’appiciano quattr’anni. ‘Na volta a Genova, nella Bohème, quando buttan giù la neve venivan giù giornali interi. Uno disse a me “hai l’elmetto?”. Poi ci fu Casarosa il baritono, livornese pure lui, c’è nell’ultim’atto che more lei. Io son lì con lei, poi entra Schaunard con la bottiglia dell’acqua, ci guarda tutti e due e sulla sinistra va da Marcello e fa “Marcello è spirata” e lui fa “… io boia!”.
E a Parma che allora era il tempio della lirica, come si è trovato? 
«Mi hanno sempre voluto bene, una meraviglia. Che Francesca che c’ho fatto, con Carmen Melis! Dirigeva Zandonai. Hanno sentito che c’avevo i mezzi e il pubblico rispondeva bene: quando risponde il tenore risponde anche il pubblico, se no son pasticci. È un pubblico di molto difficile ma buono. Quando uno canta l’Aida a Parma e va diritto, è passato da un gran teatro. Si dice che quando passi da Parma puoi andare in tutto il mondo. È vero, hanno ragione loro soprattutto per Verdi che lo sanno meglio di noi. Ho cantato anche a Casalmaggiore una Lucia fenomenale».
Quali sono le opere che a lei dispiace di non aver cantato? 
«La Manon di Puccini, perché mi diede un consiglio Capuana. Mi disse “Masini non cantare quest’opera col temperamento che hai perché ci lasci le penne”, ma a me piacque studiarla perché mi piace immensamente. Di Verdi avrei avuto piacere di fare Il trovatore ma, come ho detto, non me lo hanno mai offerto. Le altre le ho fatte tutte».

È difficile Rigoletto per il tenore? 
«Non ho mai trovato difficoltà per Rigoletto in nessun posto, perché mi stava da Dio quell’opera lì. C’era da impegnarsi in “Ella mi fu rapita”, quella dava un po’ noia. Cantai una ballata nel prim’atto “Questa o quella” che era una bellezza».
E Aida
«Molto bene. Dà un po’ noia “Celeste Aida” da cantare subito a gola fredda. Io la cantavo prima in camerino, perché la mia voce aveva bisogno di essere molto scaldata. Cantavo “O terra addio” a mezza voce appoggiata, non abbandonata. Non in falsetto, il falsetto non esiste: a mezza voce sostenuta. “Morir sì pura e bella”, quelle cose lì, con la Caniglia. Non l’ho registrata perché mi dava noia; magari passava un taxi che sonava e pigliavano anche quello. Mi facevano cantare tre o quattro volte “Celeste Aida”, poi dicevano che una la tenevano di riserva».
Invece La forza del destino è venuta molto bene. 
«Sì, ma quella s’è fatta quasi in diretta, in du’ giorni con Marinuzzi a Torino, insieme con Tagliabue, la Caniglia e Tancredi Pasero. Corelli e Di Stefano l’hanno fatto diventà novo il disco a forza d’ascoltarlo. Ma a lei le piace la Caniglia? Guardi c’ho cantato vent’anni con questa signora. Era la moglie del Donati che nel ’36 era sovrintendente a Verona, giornalista e scriveva sull’Arena. S’innamorò questa sudiciume qui, lui era vedovo e si sposonno. C’ho cantato vent’anni! Tempo fa alla radio non mi rammento nemmeno; rammento Lauri Volpi e Gigli questa sudicia. Alle terme di Caracalla facevamo la Tosca. Lei canta il “vissi d’arte” e le chiedono il bis. S’alza il primo violino e le dice “Signora non si può fare il bis” – “Perché?” – “Perché non si può fare”. E io non ho mai saputo il perché. S’arriva al “lucean le stelle” e ti vien giù l’universo e lei mi fa “Ora vediamo se sei un amico: non fare il bis” e me lo dice in scena davanti al pubblico. Allora mi faccio dare un microfono “Cari Romani non posso fare il bis per la mia collega con cui è vent’anni che canto, non le posso fare questo torto. Io vi ringrazio Romani”. E lei non mi ha rammentato, questa sudicia. Le ho scritto una lettera: deve piangere. Poi andai a Sulmona, perché lei era di origini abruzzesi, a fare un’Aida per du’ palanche».
Parlando di soprani penso alla Callas. Avete cantato insieme, cosa mi dice di lei? 
«Che è stato il più grande soprano del mondo. Quando si passa dalla Norma e canta Il barbiere e la Lucia non ne parliamo più. Io c’ho fatto la Turandot, la Tosca a Pisa e la Norma al Reale (intende l’Opera di Roma, ndr) diretta da Serafin. Il più grande soprano del mondo è stata lei, ebrea e greca: c’era tutto».

Che cosa è per Galliano Masini il do di petto? 
«Mai esistito. Il do di petto non è mai esistito. È un suono che va portato in maschera e appoggiato sul fiato. Ѐ di testa, no sul petto». Facciamo un carrellata sui tenori del suo tempo, così come sono riportati su questo libro di cantanti. Mi può dire il suo parere? 
«I Livornesi erano curiosi di sentire questo signor De Muro e dissero “Siamo nel ’24, nel ’25 questo non canta più, perché non si può cantare così tutt’aperto”. Io ho cantato trentacinque anni. Fleta: bene. L’ho conosciuto, è morto giovane a 40 anni, ma è stato un gran tenore. Zenatello: glielo regalo tutto. Ha inaugurato l’Arena di Verona nel ’13 con l’Aida. Ramón Vinay: ha dominato l’Otello, bell’artista, voce discutibile però era un grande interprete. Lucien Muratore: era un bel tenore anche quello. Till: era quello che ha ripreso Turandot dopo la prima alla Scala, poi andò a cantare a Verona. Lázaro: oh grande tenore, fu quello che fece Il piccolo Marat la prima volta a Roma. Anselmi: un toscano di Calcinaia, ora c’ha un negozio d’antiquariato a Firenze. Schipa: come diceva Buscaglione “piccola, piccola così”. A Bergamo c’è il giornale “La Voce” viene uno e mi fa “La vuole La Voce?” – Guardi la dia a Schipa. Poi un giorno passò colla valigia, deh. “In dove vai Tito con quella valigia, porti in giro le tu’ stecche?” Anche Mugnone diceva “Gondrand è venuto?” Gondrand sarebbe stato Schipa perché trasportava tutto, deh! Francesco Merli: non mi è mai piaciuto. Trantoul: quello bono, piaceva anche a Parma specialmente nella Carmen. Martinelli: andò in America e quando cominciarono a morire l’altri tornò in Italia. Beniamino Gigli: era un tenore sicuro quello lì, un diaframma d’acciaio, un po’ piangione ma un’emissione perfetta. Giulio Crimi: bella voce, morì giovane in carrozza. Johnson Di Giovanni: lo chiamavano Di Giovanni ma era americano e diventò sovrintendente del Metropolitan. Mi scrisse un telegramma “Quando vieni giù passa da New York che ho bisogno di parlarti”. Ci vado e mi disse “Cosa vuoi cantare quest’altro anno al Metropolitan?” – La Lucia. Minghetti Angelo di Bologna: quello è stato un signor tenore, se lo ricordi».
Lei avrà avuto rapporti anche con gli autori di opere che ha cantato: Mascagni e Puccini sicuramente. 
«Puccini mai. Ho conosciuto Giordano. Quando cantavo al Reale stavo all’albergo Quirinale e Giordano c’aveva l’appartamento al primo piano. Tutte le mattine ci vedevamo giù nel ridotto del teatro e si raccomandava “Caro Masini come va? Allora me la vuol cantare questa Fedora o no?” – “Maestro devo studià la Carmen e La forza del destino, come si fa” – “Se m’impara la Fedora la dirigo io e la trasmetto in tutta l’Italia”. Detto fatto e mantenne la promessa. Eravamo io, la Pederzini e Vanelli alla RAI che la trasmise e lui mi fece questa dedica “A Galliano Masini che con la sua superba interpretazione di Loris in Fedora, mi ha trasportato colla mente e col cuore ai bei tempi di Caruso. Umberto Giordano.” Da allora ho sempre fatto Fedora e ce l’ho levata io dagli scaffali, perché dormiva. Adesso basta perché c’ha tanta bella roba, deh!».
Qual è stata l’ultima opera che ha cantato? 
«L’Otello qui a Livorno, 1958».